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mercoledì 2 maggio 2018

Un chant d'amour di Jean Genet 

In asfittiche e solitarie celle d'una prigione, forse in Algeria, giovani maschi reclusi vivono in un ossessivo, reciproco desiderio erotico. Soffiano il fumo di sigaretta attraverso fori scavati nei muri, si strusciano contro dure pareti di cemento sapendo che il loro uomo è dall'altra parte. Un secondino sessualmente ambiguo li spia, e talora i prigionieri si esibiscono per lui, altre volte l'uomo entra, frusta uno di loro, lo obbliga a una fellatio al proprio fucile. 
Uno dei detenuti balla, come in trance, seguendo una musica immaginaria, mentre accarezza un ritratto di donna tatuato sul suo avambraccio. Un altro, innamorato di lui batte a più riprese sul muro della sua cella, ma, in un primo tempo, senza essere ascoltato. Un terzo prigioniero si masturba.
Un chant d’amour non presenta una descrizione minuziosa dell’ambiente e della vita all’interno di un carcere. Si vedono quasi soltanto tre celle adiacenti, in ognuna delle quali è rinchiuso un giovane prigioniero; e il corridoio dove sono affiancate le tre porte, lungo il quale passeggia il secondino. La vita di Genet, omosessuale e ladro, si è svolta al di fuori di ogni canone usuale e quando nel 1950 girò questo film era uscito di prigione (dove aveva trascorso molto tempo) da due anni, grazie all'interessamento di alcuni scrittori, come Cocteau e Sartre. Per lui la prigione era il luogo privilegiato del desiderio, dove la presenza di carnefici e vittime, di segregazione e di violenza, acuisce i sensi appagando come non mai ogni fantasia sessuale.
Un chant d'amour è rimasta la sua unica opera cinematografica. Realizzato nel 1950 con mezzi ridotti al minimo, il film di ventisei minuti, privo di sonoro ed in bianco nero e interpretato da attori non professionisti, fu da subito un'opera “maledetta”. Considerato pornografico e per questo a lungo vietato, divenne visibile al pubblico soltanto due decenni più tardi. Si trattava comunque di un pubblico ristretto, frequentatori dei circuiti underground dove copie scadenti del film circolavano in modo semi-clandestino.
Il fatto che sia ambientato in una prigione lo rende più che mai autobiografico, una lirica e sensuale proiezione dell'immaginario fantastico di Genet. Ma è altresì, il trionfo visivo di ogni immaginario omosessuale, in cui amore e violenza, sesso e poesia si mescolano potentemente, in un insieme di immagini riunite con grande libertà, quasi un universo simbolico a sé stante.
La passione, l'erotismo, la solitudine che uccide lentamente, la speranza e il sogno di una romantica corsa nei boschi come unica arma per sopravvivere, l'ingegnoso piccolo foro
nel muro che permette ad un filo di fumo di venire espulso dalla bocca di un uomo per trasferirsi in quella di un altro, ed infine una ghirlanda, dono d'amore che dopo mille difficoltà riesce a passare dalla mano del donatore a quella del ricevente, pegno d'amore che costerà caro al più anziano dei due protagonisti. Un film di respiro neorealista, ma anche espressionista, che non rinuncia a mostrare con orgoglio le virilità maschili così spudoratamente esibite ma in realtà del tutto castrate dagli invalicabili limiti di quattro mura scalcinate di una tetra prigione. Raramente il cinema è riuscito ad esprimere in modo così schietto e dirompente la potenza di una passione che non si ferma nemmeno davanti agli ostacoli più evidenti ed ineliminabili, dove le barriere di una prigione ne costituiscono la più evidente simbolica rappresentazione. 


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