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giovedì 30 marzo 2017

Prospettive per una generazione

Una società folle si propone di predisporre il suo avvenire generalizzando l'uso di camicie di forza individuali e collettive tecnicamente perfezionate (case, città, territorio pianificato), che ci impone come un rimedio ai suoi mali. Noi siamo invitati ad accettare, a riconoscere come nostro questo "corpo inorganico" prefabbricato; il potere medita di rinchiudere l'individuo in un altro sé, radicalmente altro. Al fine di adempiere a questo compito, effettivamente vitale per lui, oltre ai cortigiani (urbanisti, pianificatori del territorio), può contare sui fuorviati che fanno attualmente gli straordinari nelle scienze cosiddette umane. I servitori, segnatamente, di un'"antropologia" non più speculativa, ma strutturale e operativa, si adoperano attivamente ad estrarre una "natura umana" in più, ma questa volta direttamente utilizzabile, a somiglianza di una scheda della polizia, attraverso le diverse tecniche di condizionamento. Il risultato ultimo del processo così iniziato (ammesso che la crescita delle forze della nuova contestazione che l'accompagna dappertutto gliene dia il tempo) si denuncia fin d'ora come la versione modernizzata di una soluzione già sperimentata, il campo di concentramento, qui decentrata sull'insieme del pianeta. Le persone vi saranno assolutamente libere, soprattutto di andare e venire, di circolare, ma interamente prigioniere di questa libertà futile di andare e venire nei viali del potere. 

Essere squatter nel 1600

Il più antico esempio conosciuto nel mondo di azione anarchica politicamente consapevole risale ai fatti dell’aprile 1649, quando Gerrard Winstanley e una quarantina di altri coloni hanno costituito una comunità agricola proto-anarchica sulla terra comune e incolta a St George’s Hill, nel Surrey (dove adesso c’è una struttura abitativa privata molto esclusiva). Erano i cosiddetti Diggers (Dissodatori), il più radicale dei gruppi rivoluzionari emersi all’epoca delle guerre civili inglesi verso la metà del diciassettesimo secolo, la loro intenzione dichiarata era «lavorare nella giustizia e porre le fondamenta per fare della terra un tesoro comune per tutti». Il film Winstanley, girato nel 1975 da Kevin Brownlow e Andrew Mollo, ha ricreato meticolosamente gli avvenimenti di St George’s Hill e, pur senza parteggiare apertamente a favore dello spirito anarchico che ispirava il movimento, mette in evidenza le connessioni con il comunismo libertario presenti nei pamphlet di Winstanley e nell’azione diretta dei Diggers.
Winstanley, dopo un tentativo fallito di succedere a suo padre come mercante di tessuti, diventava un bracciante e un pensatore radicale, e i suoi scritti rivelano le intenzioni sovversive dei Diggers a St. George’s Hill. Erano solo degli squatter senza terra, eppure mentre ripulivano e concimavano il terreno comune, piantando ortaggi, intendevano coscientemente stabilire la possibilità di vivere in un modo diverso, alternativo. In quello stesso anno Winstanley manifestava questa consapevolezza della sfida che avevano accettato. La libertà, scriveva, «è la forza umana che rovescerà il mondo, quindi non è motivo di meraviglia che abbia dei nemici». Nel Trae Levellers’ Standard sosteneva che l’intrinseca capacità del popolo di ragionare e organizzare la propria vita rende inutile un controllo esterno e il bisogno di «correre in giro appresso a ogni maestro o padrone a esso estraneo». La sottomissione a un’autorità imposta è dannosa oltre che non necessaria, perché «il potere di comandare e insegnare ostacola lo spirito di pace e libertà, dapprima all’interno dei nostri cuori, riempiendoli della servile paura degli altri, e poi all’esterno di essi, sottomettendo i corpi così che siano imprigionati, puniti e oppressi dal potere esterno di un altro». La comunità di St. George’s Hill si era costituita per mostrare come il popolo, per vivere, non avesse necessità del governo di uno Stato con il suo potere di coercizione, sperando di attrarre altri aderenti e crescere in numero e influenza. Insieme allo Stato e al suo apparato, era anche rifiutata l’idea corruttrice della proprietà privata. Che ogni uomo possa dire il suo volere, [perché] fintanto che i Governanti decideranno loro sulla Terra, trattenendo per sé questa particolare proprietà del Mio e del Tuo, mai la gente comune avrà la sua libertà, né mai la Terra sarà libera da guai, oppressioni e recriminazioni.


Riflessioni sul movimento operaio

Il movimento operaio del Novecento non è stato schiacciato dalla repressione fascista né corrotto dai transistor e dai frigoriferi, ma si è autodistrutto in quanto forza di cambiamento, poiché esso mirava a conservare la condizione proletaria piuttosto che a superarla. Il fine del movimento operaio era quello di impadronirsi del vecchio mondo e di gestirlo in modo nuovo: mettere gli improduttivi al lavoro, sviluppare la produzione, instaurare la democrazia operaia. Soltanto una piccola minoranza, «anarchica» o «marxista», affermava che una nuova società avrebbe dovuto implicare la distruzione dello Stato, della merce e del lavoro salariato, benché soltanto raramente abbia definito tale distruzione come un processo, rappresentandosela, piuttosto, come un programma da mettere in pratica attraverso la conquista del potere.

Come detto, la storia delle rivoluzioni operaie è stata una storia di fallimenti e di sconfitte; non solo nella misura in cui esse furono schiacciate dalla controrivoluzione capitalista, ma perché le loro stesse «vittorie» finirono per assumere i contorni della controrivoluzione: instaurando dei sistemi sociali che ponevano a proprio fondamento lo scambio monetario e il lavoro salariato, esse non riuscirono ad andare oltre il capitalismo.

Ogni «periodo di transizione» era visto, dunque, come intrinsecamente contro-rivoluzionario, non soltanto nella misura in cui esso implicherebbe una struttura di potere alternativa che finirebbe col «conservarsi declinando» (si pensi alle critiche di parte anarchica alla «dittatura del proletariato»), né semplicemente in quanto manterrebbe inalterati, nei loro aspetti fondamentali, i rapporti di
produzione attuali; ma anche perché il «potere operaio», sulla base del quale tale transizione si dovrebbe realizzare, veniva adesso visto come un elemento estraneo alle lotte. Il potere operaio non è che l’altra faccia del potere del capitale, il potere di riprodurre gli operai in quanto operai. A partire da questo momento, l’unica prospettiva rivoluzionaria concepibile diventa quella dell’abolizione di questo rapporto di reciproca implicazione.

Dagli anarco-sindacalisti agli stalinisti, tutto l’ampio spettro del movimento operaio riponeva le proprie speranze di rovesciamento del capitalismo e, in generale, della società divisa in classi, nell’ascesa al potere della classe operaia all’interno del modo di produzione capitalista; a un dato momento, il poter operaio si sarebbe dovuto impossessare dei mezzi di produzione, dando avvio ad un «periodo di transizione» verso il comunismo o l’anarchia – una fase che non avrebbe visto l’abolizione della condizione operaia, bensì la sua generalizzazione. In tal modo, il fine ultimo della soppressione della società di classe coesisteva con una larga varietà di mezzi rivoluzionari fondati sulla sua perpetuazione.

L’Internazionale Situazionista ereditò dai surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti all’emancipazione del lavoro e il fine utopico della sua abolizione. Il suo merito principale fu quello di ricondurre un’opposizione esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività interna, più adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva in una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale si sottolineava il rifiuto di ogni separazione tra l’azione rivoluzionaria e la trasformazione totale della vita – un’idea già presente, seppure in modo implicito, nel progetto originario della «costruzione di situazioni». L’importanza di questo sviluppo non deve essere sottostimata, nella misura in cui la «critica della separazione» implicava sia una negazione di qualsivoglia iato temporale tra mezzi e fini (e dunque dell’idea stessa di «periodo di transizione»), sia il rifiuto – incentrato sulla partecipazione universale, diretta, democratica all’azione rivoluzionaria – di ogni mediazione sincronica. In virtù di questa capacità di ripensare lo spazio-tempo della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS dell’opposizione tra liberazione e abolizione del lavoro si sostanziava, in definitiva, nella riunificazione dei due poli in un unità immediatamente contraddittoria, che trasponeva l’opposizione tra mezzi e fini in una opposizione tra forma e contenuto.

giovedì 23 marzo 2017

Le molteplici proposte dell'anarchismo

L'anarchismo, nel tempo, ha presentato diverse proposte sia teoriche che pratiche, ipotizzando quindi interventi differenti tra loro.
Questo perché alla base dell'anarchismo stesso non vi è un Partito, o altra organizzazione, che ne possa o voglia dettare delle linee tattiche e strategiche uniche, ossia valide per tutti.
Non c'è una linea politica dettata da una autorità centrale (sarebbe la negazione stessa del pensiero anarchico), ma vi sono diverse proposizioni, ugualmente degne di attenzione.
In campo economico, premesso che tutti gli anarchici sono contro la proprietà intesa come accumulazione di beni, profitti e fonte di sfruttamento, gli orientamenti maggiormente definiti sono quello collettivista e quello comunista.
La proposta collettivista mira alla distribuzione dei beni prodotti in relazione all'impegno dei singoli facenti parte la collettività, l'ipotesi comunista anarchica, invece, si concretizza nella famosa frase "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".
L'ipotesi comunista è stata quella praticata, ad esempio, da quasi tutte le collettività rurali durante la rivoluzione spagnola (1936-39), quando ai lavoratori veniva assegnato un cosiddetto salario familiare, che teneva cioè in conto non solo l'opera prestata dal singolo, ma anche delle sue necessità come gruppo familiare.
Più in generale, i modi di pensare ed agire dell'anarchismo hanno conosciuto un approccio sociale ed uno individualista.
Il primo propone l'azione coordinata tra gruppi, federazioni, etc., il secondo si basa invece sull'iniziativa ed azione individuale, del singolo.
A seconda poi del tipo di approccio rivoluzionario, ovvero di come si ritiene sia possibile arrivare ad una svolta rivoluzionaria, gli anarchici hanno proposto diverse soluzioni, alcune alternative tra loro, altre invece compatibili e sovrapponibili:
Approccio educazionista il processo rivoluzionario può avvenire puntando sull'innalzamento del grado culturale di una società e degli individui che la compongono;
Approccio gradualista il passaggio da una società gerarchica ad una società anarchica può avvenire tramite la trasformazione, graduale, nel tempo, in senso antiautoritario, degli organismi che la compongono, sino a giungere ad un punto di rottura; 
Approccio determinista il progresso scientifico, economico, e sociale, migliorando le condizioni di vita, porterà ad una trasformazione in senso libertario della società "anarchico è il pensiero e verso l'anarchia va la storia";
Approccio volontarista l'avanzamento della società non sarà determinato dalla Storia, dal Progresso, ma sarà reso possibile solo dagli sforzi, volontari, congiunti degli esseri umani che si pongono in conflitto con le Istituzioni dominanti;
Approccio insurrezionalista la possibilità di una società anarchica è legata allo sviluppo di moti insurrezionali che portino all'attacco generalizzato ed alla distruzione delle strutture statali;
Approccio primitivista si ravvede nel progresso e nella civilizzazione (a partire da quella rurale, contadina) l'origine delle diseguaglianze e dell'attuale condizione di sfruttamento umano; la possibilità quindi di giungere ad una società anarchica è legata al ritorno ad una società pre-civilizzata, primitiva;
Approccio anarcosindacalista legato alla tradizione originata dalle lotte operaie, ritiene che la trasformazione sociale passa soprattutto da una rivoluzione operata nel mondo del lavoro: l'approccio rivoluzionario è qui sostenuto dalla graduale presentazione di richieste sindacali, rivoluzionarie, sempre meno gestibili e recuperabili dal Potere stesso.

GATTI SELVAGGI

Proprio in un momento difficile, come questo, è nata dentro di noi una consapevolezza irresistibile: la necessità di muoverci politicamente in modo diverso. Al di fuori di ogni schema ideologico tradizionale.
Noi non abbiamo miti di fronte ai quali inchinarci!!!
Non siamo marxisti, tanto meno leninisti o stalinisti. Siamo delle coscienze rivoluzionarie. Ci sta bene tutto ciò che è realmente radicale.
Seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!!!
La nostra lotta non ha come fine, semplicemente, migliori condizioni di vita, ma ha, come obiettivo ultimo, l’abolizione della proprietà privata e del capitale di stato. La nostra lotta vuole raggiungere la libertà reale e il diritto a una nuova vita nella sua totalità. Ci opponiamo a tutte le forme di organizzazione che abbiano in sé il principio della “delega”. Secondo il nostro parere e bene costruire organismi di pochi elementi nei quali o si decide tutti insieme o non si decide nulla.
Questi organismi dovrebbero prendere ispirazione, per le loro azioni, dalla loro specifica realtà. Ci sarà, naturalmente, un collegamento tra questi gruppi, ma non sarà a livello di comitati con poteri decisionali, sarà solo per informazioni. Queste forme di organizzazioni devono portare a uno svolgimento della vita sociale per quartiere e, quindi, a un controllo politico e diretto della realtà.
La nostra totale liberazione dipende direttamente dalla totale distruzione del capitalismo mondiale.
Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro

(Tratto da Gatti Selvaggi, N° 1 dicembre 1974 – gennaio 1975)  

La ribellione come dissenso totale

Secondo quando precisato da Junger, quando tutte le istituzioni sono  corrotte o intrinsecamente false, allora la responsibilità morale passa nelle mani del singolo, o meglio del singolo che non si è ancora piegato e che ritira il proprio consenso all'ordinamento ribellandosi individualmente. Né è possibile, per il Trattato del ribelle, fare affidamento su partiti, organizzazioni e movimenti strutturati, secondo il modello marxiano della rivoluzione. Nella misura in cui la sovranità oggi non si riscontra più nelle grandi risoluzioni, tutte ugualmente destinate a fallire o a rifluire nei canali istituzionali, occorre riconoscere, tutt'al più, uno spazio di azione per piccoli élites, per gruppi ristretti di singoli individui che passano alla macchia.
Diversamente dalla disobbedienza, la ribellione fa valere un dissenso che è totale, poiché coinvolge l'ordine costituito nella sua interezza. A differenza della rivoluzione, però, resta appannaggio di singoli ribelli fuggiti nel bosco e non intenzionati a fare ritorno nella polis per riconfigurala alternativamente. Rispetto alla rivoluzione, la ribellione presenta, allora, il vantaggio di mantenere sempre vivo il dissenso, senza mai produrre la ricaduta nel pratico-inerte, nella cristallizzazione della prassi contestativa in oggettività indisponibile per l'agire umano.
E, tuttavia, la ribellione si distingue in negativo dall'agire rivoluzionario per la sua strutturale debolezza, legata al suo individualismo programmatico e, dunque, alla mancata possibilità di creare, gramscianamente, un'egemonia e, con essa, un progetto politico  in grado di dare forma ad una città di futura.
Il dissenso della ribellione resta sempre attivo e, insieme, incapace di dare vita ad un potere costituente: la sua forma è necessariamente quella del cattivo infinito.   

giovedì 16 marzo 2017

Autorganizzazione autonoma

Quando parlo di autorganizzazione autonoma parlo di uno specifico fenomeno che tende a nascere ogni volta che la gente, quando è incazzata per le proprie condizioni e ha perso la fiducia in quelle persone che erano delegate a risolvere i loro problemi, decidono di agire per conto loro. Inoltre l’autorganizzazione autonoma non si manifesta mai nella forma di un partito politico, di un sindacato o di qualunque altra sorte di organizzazione rappresentativa. Tutte queste forme di organizzazione dichiarano di rappresentare la gente nella lotta e di agire in loro nome. E quello che definisce l’autorganizzazione autonoma è precisamente il rifiuto di tutti i rappresentanti. I partiti, i sindacati e le altre organizzazioni tendono a comportarsi nei confronti di un’organizzazione autonoma solo nella forma di recuperatori delle lotte, sforzandosi di prenderne il comando e di imporsi loro stessi come portavoce della lotta – di solito con lo scopo di negoziare con i governanti. Perciò possono essere considerati solamente come potenziali usurpatori laddove si sviluppa una rivolta realmente auto-organizzata. L’autorganizzazione autonoma presenta dei tratti essenziali. Prima di tutto non c’è una gerarchia. Non c’è un’istituzione, non c’è un gruppo di comando permanente, non c’è un’autorità. Anche se a qualcuno che si dimostra particolarmente capace e abile con specifici problemi della lotta a portata di mano sarà accordata l’attenzione che merita per quell’abilità, non sarà permesso che questo motivo diventi la base per un ruolo di comando permanente, altrimenti si comprometterebbero altri aspetti importanti dell’autorganizzazione autonoma che sono la comunicazione orizzontale e i rapporti orizzontali fra le persone. E’ una questione di consentire alle persone di parlarsi una con l’altra, di interagire con ciascuno con tutti, di esprimere apertamente i bisogni e i desideri, mettersi a discutere concretamente i problemi che si trovano ad affrontare insieme e in termini pratici, senza nessuna persona o gruppo di comando per incanalare queste espressioni secondo una linea stabilita. 
Per concludere quello che distingue l’autorganizzazione dalla politica è la sua opposizione alla rappresentanza e al compromesso – non tanto con l’ordine costituito, ma all’interno dello stesso movimento auto-organizzato. Così piuttosto che cercare di imporre decisioni collettive che implicano il compromesso, essa cerca di trovare un metodo per intrecciare i desideri, gli interessi e i bisogni di tutti quelli coinvolti in una maniera che sia effettivamente soddisfacente per ciascuno.
(Wolfi Landstricher, Portland, OR, USA)

HOMBURG Procol Harum

La tua amica d’affari poliglotta
ha fatti i bagagli ed è fuggita
lasciando solo portaceneri pieni
ed il letto sfatto e sporco di rossetto.
È salita sopra il muro
riflettendosi  nello specchio …
I risvolti dei tuoi pantaloni sono sporchi
e le tue scarpe sono allacciate male,
è meglio che ti togli il cappellaccio,
perché il tuo soprabito è troppo lungo.
L’orologio della città nella piazza del mercato
si ferma aspettando l’ora quando le sue mani
torneranno entrambi indietro ed
incontrandosi divoreranno se stesso …
Ed il sole e la luna avranno i brividi
ed i pali indicatori cesseranno di segnare.



La mutazione del cervelli è in corso

L'alternativa che possiamo immaginare per il futuro è dunque questa: sottomissione della mente alle regole della neuro-macchina globale secondo il principio competitivo dell'economia capitalistica, oppure l'emancipazione della potenza automa dell'intelletto generale.
Il processo di trasformazione sta spostandosi dal campo della progettualità politica ala sfera concettuale pratica della neuro-plasticità.
La mutazione del cervelli è in corso come tentativo spasmodico di fare i conti con la caotica infosfera, oltre che ridefinire la relazione tra cervello e infosfera. Fenomeni traumatici di adattamento attraversano lo spazio del cervello sociale. Non solo la dimensioni psichica dell'inconscio ne è disturbata, ma il tessuto del sistema neurale stesso è soggetto al trauma del sovraccarico e della disconnessione. L'adattamento del cervello alle nuove  condizioni dell'ambiente implica una enorme sofferenza, una tempesta di violenza e di follia.
Il problema è: la coscienza giocherà un ruolo in questo processo di mutazione? Sarà l'immaginazione capace di agire consapevolmente nel processo di riadattamento neuro-plastico?  E l'organismo cosciente è in grado di agire quando viene preso in una situazione di spasmo?
L'immaginazione è la facoltà che rende possibile andare al di là dei limiti del linguaggio, la capacità di ricomporre i frammenti immaginari (e anche concettuali e linguistici) che raccogliamo dall'esperienza del passato. L'immaginazione prende frammenti dal magazzino della memoria, che in effetti non è un magazzino ma una macchina dinamica di rielaborazione. Allora l'immaginazione ridisegna i confini e le forme, e questo ridisegno rende possibile vedere un nuovo orizzonte, e proiettare un mondo che non avevamo visto prima.
Come possiamo rimanere umani, come possiamo parlare di solidarietà se abbandoniamo il campo dell'azione politica, ormai svuotato e inefficace?

giovedì 9 marzo 2017

Che cosa è dunque una rivoluzione sociale?

Che cosa è dunque una rivoluzione sociale? L'attuazione di un radicale rovesciamento di prospettiva della società che si trasforma superando la sua caducità, riferendosi costantemente alla realizzazione di una utopia condivisa. 
Ogni qualvolta, anziché seguire il ritmo della fraternità e della uguaglianza, la libertà cerca di imporsi in modo meccanicistico con la forza, la rivoluzione si rovescia nel suo contrario, deteriorando tutte le componenti del suo movimento sociale in ideologia. Non c'è concetto, del resto, che non possa avvilirsi in un ismo diventando appunto ideologia. L'utopia, poesia di quel si desidera è non c'è ancora, si stravolge in utopismo e consegna in suo nome la formulazione del desiderio poetico del vivere meglio a una qualunque moralistica autorità controrivoluzionaria. L'esplorazione di un sogno soggettivo si trasforma allora ineluttabilmente in un incubo collettivo. La radicalità, espressione del legame intelligente e sensibile con il proprio corpo, individuale e sociale, si trasforma in un estremismo la cui gesticolazione funge da alibi per l'impotenza contemplativa di aristocratici rivoluzionari assoluti. Un'impotenza che diventa ancora più grave quando si risveglia istericamente nell'azione spettacolare e senza sbocchi di un qualunque nichilismo. Tutti gli ismi sono il sintomo di uno scivolamento dall'autonomia al gregarismo, dalla soggettività alla massificazione. Così si opera il recupero dell'arma della critica in liturgia più o meno sanguinaria, ma sempre spettacolare.
L'ipotesi di rivoluzione sociale si perde allora negli stessi meandri della manipolazione reazionaria su cui si fonda la società dominante, dove la favola del cambiamento per mezzo di ragionevoli riforme si traduce  immancabilmente in riformismo cioè nella pratica della conservazione sotto l'alibi ideologico di un cambiamento fittizio.
Va rivendicata con forza e chiarezza la necessità di un netto distingue tra utopia e utopismo, radicalità e radicalismo, costruzione di situazione e situazionismo. Il rifiuto di ogni ismo è al cuore della laicità che forgia l'umanità dell'uomo. La radice di ogni società laica si nutre del dubbio dell'agnostico che evita accuratamente qualunque amalgama tra pratica dell'intelligenza sensibile e assunzione di ruoli spettacolari, tra libera poesia soggettiva e addomesticamento ideologico.

APRI UN POCO LA FINESTRA di Brendan Behan

Apri piano la porta
Chiudila che non si muova
è tutta la vita che verso lacrime, lacrime
la mia bocca non sa cosa sia una risata

Apri un poco la finestra
e lasciala accostata per Cristo.
Entra e siediti e poi
te lo dirò questo mistero.

Solo una volta ho riso, quando cascò l'icona
e fece secca la mia vecchia nonna
mentre cantava un vecchio canto irlandese
di certi traditori che vendettero il loro capo

Apri un poco la finestra
e lasciala accostata per Cristo.
Entra e siediti e poi
te lo dirò questo mistero.

Agli stranieri bastardi
nascondi, amica mia, la tua rovina
mettiti in testa che noi siamo un leone
un liocorno e una rosa

Apri un poco la finestra
e lasciala accostata per Cristo.
Entra e siediti e poi
te lo dirò questo mistero.

(Brendan Behan nato a Dublino il 23 febbraio 1923 e morto a Dublino il 20 marzo 1964, è stato un drammaturgo e scrittore irlandese, un bevitore incallito, oltre che membro attivo dell’IRA. A soli 11 anni abbandona la scuola cattolica nazionale in cui studia e, qualche tempo dopo, si unisce al Fianna Eireann, un’organizzazione paramilitare dedita alla formazione di giovani leve per l’esercito repubblicano irlandese. Ma ne viene espulso a 14 anni per essersi presentato ubriaco alla commemorazione annuale di Wolfe Tone. Successivamente svolge per qualche anno le funzioni di messenger boy dell’IRA, ma si stanca presto di prendere ordini, e così nel 1939, in cerca di gloria, decide di raggiungere l’Inghilterra per una spedizione non ufficiale, munito di un kit personale per la fabbricazione di esplosivi, sbarca a Liverpool ma non fa a tempo a fumarsi una sigaretta che viene subito arrestato su segnalazione. Accusato di associazione finalizzata al terrorismo, sfugge alla pena capitale per via della minore età e viene rinchiuso per tre anni nel carcere minorile di Borstal. Nel 1942 venne condannato a 14 anni di detenzione per aver sparato a due poliziotti irlandesi durante la commemorazione della rivolta di Pasqua).





Rivoluzione spontanea e Anarchia

"Il mio sistema non riconosce né l'utilità, né la possibilità stessa di una rivoluzione diversa da quella spontanea, popolare e sociale. Sono profondamente convinto che qualsiasi altra rivoluzione è disonesta, nociva e funesta per la libertà e per il popolo, perché riporta una nuova miseria e una nuova schiavitù per il popolo; inoltre, e questo è l'essenziale, qualsiasi altra rivoluzione è diventata impossibile, irrealizzabile e inattuabile. La centralizzazione e la civiltà progredita, le ferrovie, il telegrafo, i nuovi armamenti e la nuova organizzazione degli eserciti, la scienza dell'amministrazione in genere, cioè la scienza dell'assoggettamento e dello sfruttamento sistematico delle masse popolari, della repressione delle rivolte popolari e di qualsiasi altra rivolta, scienza così accuratamente elaborata, sperimentata con l'esperienza e perfezionata durante gli ultimi settantacinque anni di storia contemporanea - tutto ciò ha fornito attualmente allo Stato una potenza tanto grande che tutti i tentativi artificiali, segreti, di cospirazione al di fuori del popolo, come pure gli attacchi improvvisi, le sorprese e i colpi di mano, sono destinati a essere schiacciati da questa forza; lo Stato può essere vinto e abbattuto soltanto dalla rivoluzione spontanea, popolare e sociale."
(da una lettera di Mikhail Bakunin riguardante la sua rottura con Serguei Necaev, 2 giugno 1870)

"Noi vogliamo dunque abolire radicalmente la dominazione e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo; noi vogliamo che gli uomini, affratellati da una solidarietà cosciente e voluta, cooperino tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza. E per raggiungere questo scopo supremo noi crediamo necessario che i mezzi di produzione siano a disposizione di tutti, e che nessun uomo, o gruppo di uomini possa obbligare gli altri a sottostare alla
sua volontà né esercitare la sua influenza altrimenti che con la forza della ragione e dell'esempio.
Dunque: espropriazione dei detentori del suolo e del capitale a vantaggio di tutti ed abolizione del governo.
Ed aspettando che questo si possa fare: propaganda dell'ideale, organizzazione delle forze popolari, lotta continua, pacifica o violenta secondo le circostanze, contro il governo e contro i proprietari, per conquistare quanto più si può di libertà e di benessere per tutti. 
(Programma anarchico di Errico Malatesta 1920)

giovedì 2 marzo 2017

È necessario creare una nuova politica

Una delle maggiori tragedie della nostra epoca è che la tecnica non è più considerata da un punto di vista etico.  Nel pensiero greco, produrre oggetti di qualità e di fattura artistica era un impegno morale che instaurava una speciale relazione tra l’artigiano e l’oggetto prodotto. Per molti popoli tribali, la manifattura di un oggetto corrispondeva alla messa in atto delle potenzialità insite nel materiale grezzo, dando così alla pietra, al marmo, al bronzo, una voce attraverso cui venivano espresse le latenti capacità estetiche della materia prima.
Il capitalismo ha completamente eliminato questo modo di pensare. Ha separato il produttore dal consumatore, cancellando ogni senso di responsabilità etica del primo nei confronti del secondo e mettendo da parte ogni altro tipo di considerazione morale. L’unica dimensione morale ammessa nella produzione capitalistica è la presenza della cosiddetta mano invisibile del mercato, la quale guida l’interesse individuale in modo che la produzione a scopo di profitto finisca per generare il bene comune. Ma anche tale miserabile giustificazione è del tutto scomparsa oggi. Un egoismo illimitato, altro esempio della presenza di un’etica del male, ha sostituito ogni rispetto per il bene pubblico. Sebbene possa apparire facile dare alla tecnologia colpe che vanno invece addebitate agli interessi delle élite dominanti, bisogna comunque ammettere che sotto il capitalismo anche la tecnica, liberata da ogni limitazione di tipo morale, può diventare demoniaca. Una centrale nucleare, ad esempio, è un male in sé, non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza. E nessuno può più dubitare che la proliferazione di impianti nucleari – e quanti più ce ne sono, tanto più la possibilità di incidenti come quelli di Cernobyl aumenta – può a un certo punto trasformare l’intero pianeta in una colossale bomba nucleare.
La sensibilità. L’etica, il modo di vedere la realtà, il senso di sé devono cambiare attraverso modalità educative, argomentazioni razionali, sperimentazioni che mettono in conto la possibilità di imparare dai propri errori: solo questo consentirà all’umanità di raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione.  

LA MIA GENERAZIONE di Wilma Labate

La storia si svolge nell'arco di ventiquattro ore nella primavera del 1983. Un furgone blindato trasporta Braccio, terrorista arrestato alcuni anni prima, da un carcere della Sicilia a Milano dove egli rivedrà la fidanzata Giulia. Nel furgone ci sono un capitano dei Carabinieri e Concilio, detenuto comune che il capitano, magistralmente interpretato da Silvio Orlando, è costretto a "caricare" a seguito di un blocco del traffico ferroviario causato da manifestanti senza lavoro. Concilio deve essere trasportato al carcere di Bologna e quindi è "di strada". Per Rocco e i suoi fratelli Milano rappresentava solo un luogo di emigrazione che, lungi dall’arrecare reale benessere, mostrava tutta la differenza in negativo di una metropoli settentrionale a confronto con quelle più solari del centro e sud d’Italia. Per Braccio rappresentava il porto di approdo dove ritessere legami umani e ritrovare qualcosa di familiare dopo quattro anni di regime speciale carcerario. Ma niente di tutto questo: all'insaputa di Braccio, il viaggio è una trappola, un sotterfugio psicologico, per indurlo a collaborare con la giustizia. Milano per lui resta fonte di depressione dovendo affrontare una promessa mancata inventata ad arte da un colonnello dei carabinieri, di cui il capitano è solo un emissario, per estorcergli una confessione che non ci sarà. Non si può fare a meno di pensare che quel colonnello avesse in qualche modo a che fare con le stragi di matrice fascista susseguitesi dal '69 (piazza Fontana a Milano) in avanti, mentre è certo che il capitano che ne realizza il piano è una delle tante vittime della disoccupazione, un laureato in economia e commercio espulso dal mercato.
La mia generazione è un film di trent’anni fa ma ancora capace di raccontare il senso di dignità e sconfitta degli anni Settanta. Perché non solo non è invecchiato, ma al contrario, di fronte alla rimozione ideologica di questi anni, in grado di dare voce a un pezzo di quella generazione che non ha avuto successivamente alcuna riabilitazione. Nel film regna la disillusione, tanto politica, simboleggiata da Braccio, quanto quella lavorativa ed esistenziale rappresentata dal
Capitano dei carabinieri. E’ un’Italia sconfitta quella che risale la penisola sul furgone blindato dei carabinieri. La fine della lotta armata, che per sineddoche descrive la fine del movimento rivoluzionario degli anni Settanta, porta con sé anche l’altra parte della barricata, quell’Italia legata allo Stato e alle sue istituzioni da difendere. Senza più idee né ideali il prezzo della sconfitta è la totale rassegnazione all’esistente, una rassegnazione che travolge tutti gli attori in campo e di cui oggi se ne vedono chiaramente i frutti maturi. Ovviamente non è la sconfitta dello Stato, ma delle sue pedine incoscienti, dei suoi piccoli servitori, dei convinti ad una causa più per tornaconto che per ideale.
E’ per questo che la dignità con cui Braccio fa fronte alla sua sconfitta e all’idea di altri trent’anni di carcere prova a riscattare le ragioni di una “generazione perduta” e che, neanche trentenne, era già condannata a sopravvivere senza umanità il resto della propria vita. Molti non hanno resistito e alla fine quei nomi li hanno fatti o, meno direttamente, si sono dissociati da un’esperienza chiudendo malamente un capitolo della loro vita. Altri hanno seguito la strada della dignità. Una strada tragica, difficile, triste. Ma l’unica scelta umana possibile. Passati quarant’anni non dubitiamo che questi siano gli unici che, nel silenzio della sera, prima di addormentarsi, nella solitudine dei propri pensieri, riescano ancora a dormire con quella serenità impossibile a chi non ha avuto lo stesso coraggio.

Lascio sogni immutabili e relazioni instabili

Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione. Lascio una cattiva reputazione e la promessa di un ancora peggiore. Lascio qualche centinaia di migliaia di parole, alcune scritte con piacere, la maggior parte per noia e per soldi. Lascio una situazione economica miserabile, una attitudine vacillante rispetto ai grandi interrogativi del nostro tempo, un dubbio usato ma di buona qualità e la speranza di una liberazione. 
Porterò con me nel viaggio una inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi, e terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un  mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe:
Qui riposa
uno scrittore svedese
caduto per niente
sua colpa fu l'innocenza
dimenticatelo spesso


Stig Dagerman (Alvkarleby, 5 Ottobre 1923 – Enebyberg, 5 Novembre 1954) è stato un giornalista e scrittore svedese. Talentuoso, sensibile e libertario concluse la propria esistenza suicidandosi a soli 31 anni.