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giovedì 23 febbraio 2017

Cultori del godimento acefalo e disinibito

Lo stato quando vuole iniziare una azione poco popolare crea preventivamente l'opinione pubblica adeguata. Opera in modo che si dissenta contro ciò che il potere  ha preventivamente deciso di destrutturare, affinché il dissenso riconfermi l'ordine dominante e le sue strategie. 
Un'immagine tragica di questa situazione di integrale subalternità, in cui il dissenso è amministrato in vista del consenso universale, sia ha ogni qual volta la religione della merce immette nei circuiti della produzione un nuovo sfavillante prodotto. I nuovi schiavi si mettono placidamente in coda all'ingresso dei templi della merce per acquistare a rate la novità, il meglio che la civiltà dei consumi possa vendere loro. Essi non hanno contezza né del perverso incantesimo di alienazione e feticismo di cui sono parte, né delle tracce a cui quelle merci rimandano; tracce che, troppo spesso, finiscono nel sangue in paesi eufemisticamente detti in via di sviluppo.
Cultori del godimento acefalo e disinibito, ripetitori ossessivi del loro motto - "noi abbiamo inventato la felicità" -, gli ultimi uomini sono gli abitatori ideali del tempo del legame sociale interrotto e della morte dell'Ideale: non sperano in nulla di più grande, né si mobilitano in vista di futuri migliori. Hanno venduto testa e cuore al capitale, ricevendone in cambio sfruttamento e reificazione.
Schiavi che non sanno di esserlo, ignari cultori del  rito del consumo e della mercificazione dei corpi e delle anime sui cui esso si regge, sono dominati sia materialmente, sia simbolicamente. 
E, intanto, sotto il cielo domina graniticamente il pensiero unico del consenso di massa. Oltre a garantire permanentemente la cattività simbolica del gregge degli ultimi uomini, esso predica in maniera compulsiva l'intrasformabilità del mondo, con il solo obbiettivo di renderlo tale, secondo lo schema della profezia che si autoadempie.

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