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giovedì 8 dicembre 2016

Autogestione come emancipazione del lavoro

Allorché Guy Debord, nel 1954, scriveva sul muro di un viale della rive gauche «Ne travaillez jamais» «Non lavorate mai», lo slogan – ripreso da Rimbaud – era ancora pesantemente debitore del surrealismo e della sua progenie di artisti. L’Internazionale Situazionista ereditò dai surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti della emancipazione del lavoro e il fine utopico della sua abolizione. Il suo merito principale fu quello di ricondurre un’opposizione esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività interna, più adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva in una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale si sottolineava il rifiuto di ogni separazione tra l’azione rivoluzionaria e la trasformazione totale della vita – un’idea già presente, seppure in modo implicito, nel progetto originario della «costruzione di situazioni». In virtù di questa capacità di ripensare lo spazio-tempo della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS dell’opposizione tra liberazione e abolizione del lavoro si sostanziava, in definitiva, nella riunificazione dei due poli in un unità immediatamente contraddittoria, che trasponeva l’opposizione tra mezzi e fini in una opposizione tra forma e contenuto.
All’inizio degli anni ’60, l’IS aderì anima e corpo al programma rivoluzionario del comunismo dei consigli, esaltando la forma-consiglio – lo strumento attraverso il quale gli operai realizzerebbero l’autogestione della produzione e si impossesserebbero dell’intera potenza sociale – quale «forma infine compiuta» della rivoluzione proletaria. Da quel momento, tutti i limiti e le potenzialità dell’IS furono inscritti nella tensione tra l’appello ad «abolire il lavoro» e lo slogan fondamentale: «tutto il potere ai consigli operai!». Da un lato, il contenuto della rivoluzione coincideva dunque per l’IS con una rimessa in causa del lavoro in quanto tale (e non semplicemente della sua organizzazione), il cui fine doveva essere il superamento della separazione tra lavoro e tempo libero; dall’altro lato, la forma della rivoluzione era ricondotta all’appropriazione e alla gestione democratica delle fabbriche da parte degli operai. Ciò che ha impedito all’IS di sciogliere questa contraddizione è il fatto che le due polarità di forma e contenuto, nella teoria situazionista, rimanevano entrambe ancorate alla prospettiva della affermazione del movimento operaio e della emancipazione del lavoro. L’IS individuava il fondamento che rendeva possibile la critica dell’alienazione nella prosperità tecnologica propria del capitalismo moderno («la società dei divertimenti» generata dalle potenzialità dell’automazione) e nella forza del movimento operaio, capace tanto di indirizzare – attraverso le lotte quotidiane – quanto di appropriarsi – mediante i consigli rivoluzionari – questi progressi tecnici. Era dunque sulla base del potere operaio all’interno dei luoghi della produzione che, per l’IS, l’abolizione del lavoro, da un punto di vista tecnico e organizzativo, diventava possibile. Trasferendo le tecniche dei cibernetici e le attitudini degli anti-artisti bohémien nelle mani callose e agguerrite della classe operaia organizzata, i situazionisti furono in grado di immaginare l’abolizione del lavoro come risultato immediato della liberazione del lavoro; vale dire di immaginare il superamento dell’alienazione dell’attività come prodotto di una ristrutturazione tecnico-creativa della fabbrica da parte dei lavoratori stessi. In questo senso, l’IS rappresenta l’ultimo sincero atto di fede in una concezione dell’autogestione intesa come parte integrante del programma di emancipazione del lavoro.

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