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giovedì 3 dicembre 2015

BRONSON di Nicolas Winding Refn

"Sono nato e cresciuto con il nome di Michael Peterson, ma sono più conosciuto con il mio pseudonimo: Charlie Bronson".
Proveniente da una buona famiglia borghese, il giovane Michael Gordon Peterson ha da sempre manifestato atteggiamenti aggressivi verso l’intera società. Nel 1974 gli si spalancano le porte del carcere, dopo una piccola rapina a un ufficio postale, lasciando soli la moglie e il figlio.
Entrato in carcere per scontare una condanna di sette anni, continua la smania di essere al centro dell'attenzione. Si macchia di una serie di violenze perpetrate sui secondini, spadroneggiando all'interno del carcere, che egli definisce una camera d'albergo, e diventando l'idolo degli altri detenuti. Le autorità decidono quindi di trasferirlo in diversi penitenziari, nella speranza di calmare la sua violenza, ma ogni tentativo è vano. Viene mandato in un ospedale psichiatrico, dove gli vengono iniettate alte dosi di farmaci sedativi e qui cerca di strangolare un paziente che aveva ammesso di essere un pedofilo e quindi torna in carcere.
Dopo diversi anni torna in libertà sulla parola e va a vivere da suo zio a Luton, dove inizia ad appassionarsi alla boxe a mani nude, cambiando il proprio nome in Charles Bronson, in omaggio al famoso attore. La sua carriera di pugile finisce in fretta, dopo essersi innamorato di una donna, per la quale ruba un anello di fidanzamento; proprio per questo furto viene nuovamente arrestato. In carcere si rende nuovamente protagonista di atti di violenza nei confronti delle guardie, rimane inoltre coinvolto in una rivolta dove prende in ostaggio un bibliotecario, ingaggiando una lotta contro agenti antisommossa. Proprio per questi motivi la sua condanna viene estesa, passando oltre trent'anni della sua vita in isolamento, periodo in cui inizia a interessarsi di arte.
Il regista danese Nicolas Winding Refn realizza questo piccolo gioiello di satira narrando con un sorprendente estro visivo le peripezie tra carcere e istituti psichiatrici del famigerato criminale britannico Charlie Bronson. 
Ogni facile sociologismo, ogni giustificazionismo che riconduce la violenza dell’individuo a cause sociali e di deprivazione economica, viene fortunatamente spazzato via dal film di Refn. Peterson/Bronson nasce e cresce in una famiglia middle class assai perbene che, come usa dire, non gli fa mancare niente, non è dunque il prodotto di chissà quale triste emarginazione. Il suo primo colpo, quello alla banca con un fucile a canne mozze, lo fa semplicemente perché ne ha voglia e gli piace, per puro gusto dell’infrazione e dell’effrazione, forse anche per pura malvagità. E tutto quello che in seguito combinerà in carcere (rivolte devastanti, risse, combattimenti bestiali con detenuti e secondini) lo farà per usare la violenza come piedistallo del proprio mito, e anche per trasformare il proprio corpo, i propri muscoli, la propria animalità  in opera d’arte, in performance e esibizione dandistica, secondo un processo di estetizzazione della brutalità e della violenza, del sangue e della carne, non si sa quanto istintivo e inconsapevole, e quanto invece assai consapevole.
Michael Peterson non è un violento, è un dadaista della violenza, è il vero anarco-punk delle prigioni e degli ospedali psichiatrici: picchia tutti, si fa picchiare, attacca il prossimo suo come attaccherebbe se stesso se solo ne avesse l’occasione, sbuffa, sputa, scalcia e strepita. Insomma, è un performer. E come tale ha un pubblico, formato dalle guardie e dai prigionieri, ma anche dai comuni borghesi lettori dei tabloid che ne seguono le azioni riottose.


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