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giovedì 5 novembre 2015

E' possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?

Nel mondo delle macchine, stiamo diventano macchine a nostra volta. Come tanti automi telecomandati siamo chiamati soltanto a seguire le istruzioni che ci vengono impartite e ad adempiere ai comandi imposti.
Non c’è un dittatore umano che ci costringa a trasformarci in congegni dal rendimento utile, è la mentalità che abbiamo acquisito che ci dirige: la nostra educazione, la nostra istruzione, la nostra accettata libertà vigilata, i nostri sbrigativi rapporti con gli altri (e con noi stessi), la nostra indotta convinzione di non poter fare altrimenti. L’inganno che ci confina al ruolo di cinghie di trasmissione del Grande Motore, trova nell’ideologia della Macchina la sua stessa natura svelata, persino etimologicamente.
Se nel mondo delle macchine stiamo diventando macchine è anche perché nel mondo delle macchine noi non esistiamo più. E questa progressiva espulsione dell’umano dal mondo degli umani è semplicemente inarrestabile, se non fermando la tecnologia per intero. La tecnica, infatti, può solo correre verso la via di una sempre maggiore invasione della tecnica, è nella sua logica. Conseguentemente, più aumenterà l’uso di ritrovati di tecnologia, più saranno questi ultimi a prendere il sopravvento sulla vita, incrementando ogni nostra distanza emozionale verso le sorti del mondo. Figlia della logica stessa che la produce (logica della perfezione meccanica, dell’efficienza operativa, della velocità di esercizio, dell’ordine e dell’obbedienza), la tecnologia è l’incarnazione del mondo che la promuove e la diffonde. Ne supporta dunque tutti i valori, tutte le categorie, tutte le forme di alienazione. Parlare di tecnologia significa parlare di divisione del lavoro, di specializzazione, di efficienza e competitività, di produttività, di sviluppo, di dominio sulla Natura. Significa parlare di accentramento delle funzioni, di dipendenza dal mercato, di freddezza ed operatività, di distanza emozionale, d’inflessibilità, d’irresponsabilità, appunto. Che sono, guarda caso, valori opposti a quelli portati dall’attrezzo: e cioè flessibilità, decentramento, relazione, eguaglianza, responsabilità, autonomia (autonomia dagli esperti, dal mercato, dal lavoro produttivo). Insomma, la tecnologia è tutt’altro che neutrale, e l’idea che essa sia soltanto un fenomeno neutro non è un’idea diffusa a caso: serve a convincere. Ci spinge cioè a sottovalutare il potere invasivo e pervasivo della tecnologia, la sua capacità manipolativa (dell’ambiente ma anche della percezione umana) e quindi ci induce a credere che essa non sia un problema ma un’opportunità. La tecnologia, invece, è un problema. Un grosso problema!
Quello che si dovrebbe aver chiaro è che quando si parla di “tecnologia”, si parla di schiavitù. Una simile chiarificazione, peraltro, consente di rispondere da sola al quesito che qualche favoreggiatore di un eco-mondo-tecnologico non manca mai di porre per cercare un conforto alla propria visione ideologica: è possibile fare un uso sostenibile di tecnologia? Basta mettere le parole giuste al loro posto e la risposta viene da sé: è forse possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?

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