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giovedì 22 ottobre 2015

IL MORBO DEL SINDACALISMO

Ogni movimento incontrollato in cui, per quanto embrionalmente, una critica sociale e culturale venga abbozzata, prova immediatamente il bisogno di definire un nuovo campo di significati e di affermare una nuova verità, ma il discorso del potere si installa nel cuore di ogni comunicazione, diventa la mediazione onnipresente e necessaria e riesce così a infiltrare, controllandolo dall’interno, ciò che lo contesta.
E così il sindacato diventa la  malattia paralizzante e mortale che colpisce un movimento di base fra i lavoratori allorché questo cessa di discutere senza intermediari tutto ciò che è discutibile, e di agire di conseguenza.
Il morbo raggiunge la virulenza in particolare allorché un simile movimento si rassegna ad abbandonare all’arbitrio del datore di lavoro – altrimenti detto leggi dell’economia – la definizione del contenuto e degli scopi della propria attività per ridursi a contrattarne il prezzo, l’orario e le condizioni esterne in genere (e, anche queste, più di diritto che di fatto). Sintomi evidenti del progredire della malattia sono, ad esempio: omettere, nel corso delle riunioni, di parlare per fare piuttosto degli interventi; preoccuparsi di dire, al posto di ciò che si vive e si pensa, ciò che ci si immagina viva e pensi il lavoratore medio; accettare che qualcuno pretenda di parlare a nome di altri da cui non abbia ricevuto un mandato imperativo, revocabile e verificabile; guardarsi bene dal porre avanti, nel movimento, le contraddizioni sociali ed umane di fondo che si vivono sulla propria pelle, tacendo, per giocare il gioco degli interessi, tutto ciò che a prima vista non sembra immediatamente passibile di soluzioni concrete; introiettare il principio del rispetto di tutte le compatibilità con ogni esigenza esistente eccetto che con le proprie.


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