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giovedì 29 gennaio 2015

State attenti alle donne di Kobane!


State bene attenti alle donne di Kobani, dove i Curdi siriani stanno disperatamente combattendo l’ISIS/ISIL/Daesh. Stanno anche combattendo i piani traditori di USA, Turchia e del governo del Kurdistan iracheno. Chi vincerà?
Cominciamo parlando di Rojava. Il pieno significato di Rojava – le tre province più curde della Siria del nord – è racchiuso in questo editoriale pubblicato dall’attivista incarcerato Kenan Kirkaya. Egli sostiene che Rojava è la dimora di un “modello rivoluzionario” che sfida “l’egemonia del sistema capitalista di nazione-stato” – ben oltre il proprio “significato per i Curdi, i Siriani o per il Kurdistan” di stampo regionale. 
Kobane – una regione agricola – si ritrova nell’epicentro di questo esperimento non-violento di democrazia, reso possibile da un accordo tra Damasco e Rojava (A Rojava il processo decisionale si sviluppa attraverso assemblee popolari – multiculturali e multireligiose. I tre maggiori funzionari di ogni municipalità sono un Curdo, un Arabo e un Cristiano Assiro o Armeno e almeno uno di questi deve essere una donna. Le minoranze non-curde hanno le proprie istituzioni e parlano le proprie lingue.
Tra una miriade di consigli di donne e di giovani, ci sono anche un esercito femminista la cui fama è in continua crescita, la milizia YJA Star (Unione delle Donne Femministe, con la stella a rappresentare la dea Mesopotamica Ishtar).
Il simbolismo non potrebbe essere più grafico, pensate alle tre forze di Ishtar (Mesopotamia) che combattono le forze dell’ISIS (tradotto Iside, dea dell’antico Egitto), ora rappresentate da un Califfato intollerante. 

All’inizio del 21° secolo, è la barricata femminile di Kobani l’avanguardia della lotta al fascismo.

TRASFORMARE IL MONDO

La rivoluzione cessa dall’istante in cui bisogna sacrificarsi per essa. Perdersi e feticizzarla. I momenti rivoluzionari sono le feste in cui la vita individuale celebra la sua unione con la società rigenerata. L’appello al sacrificio vi suona come una campana a morto.
Quando l’insorto comincia a credere di lottare per un bene superiore, il principio autoritario cessa di vacillare. L’umanità non ha mai mancato di ragioni per far rinunciare all’umano. A tal punto che esiste in alcuni un vero riflesso di sottomissione, una paura irragionevole della libertà, un masochismo onnipresente nella vita quotidiana. Con quale amara felicità si abbandona un desiderio, una passione, la parte essenziale di sé. Con quale passività, con quale inerzia si accetta di vivere per qualche cosa, di agire per qualche cosa, dove la parola cosa prevale con il suo peso morto dappertutto. Poiché non è facile essere sé, si abdica allegramente; al primo pretesto che capita, l’amore dei figli, della letteratura, dei carciofi. Il desiderio del rimedio si eclissa dietro la generalità astratta del male.
Trasformare il mondo e reinventare la vita è la parola d’ordine effettiva dei movimenti insurrezionali. La rivendicazione che nessun teorico crea perché è appunto essa a fondare la creazione poetica. La rivoluzione si fa tutti i giorni contro i rivoluzionari specializzati, una rivoluzione senza nome, come tutto ciò che emana dal vissuto, preparando, nella clandestinità quotidiana dei gesti e dei sogni, la sua coerenza esplosiva.
Il rifiuto del sacrificio è il rifiuto della contropartita. Non ce niente nell’universo delle cose monetabili o no che possa servire da equivalente all’essere umano. L’individuo è irriducibile; egli cambia, ma non si scambia. Un semplice colpo d’occhio sui movimenti di riforma sociale basta a convincerne: essi infatti non hanno mai rivendicato se non un risanamento dello scambio e del sacrificio, mettendo il loro punto d’onore a umanizzare l’inumano e a renderlo seducente. Ogni volta che lo schiavo rende sopportabile la sua schiavitù, egli vola in soccorso del suo padrone. Più i rapporti sordidi della reificazione incatenano gli uomini, più si inasprisce la tentazione umanitaria di mutilare egualitariamente.

Vogliamo la rivoluzione dei cuori

Noi non crediamo alla giovinezza e alla vita. De Gaulle salvaci tu. 
NOI CREDIAMO ALLA RINASCITA, ALL’ENTUSIASMO, ALLA MARCIA IN AVANTI. SALVIAMOCI DA SOLI.

Noi non crediamo alla solidarietà degli studenti e dei lavoratori. De Gaulle salvaci tu. 
NOI VOGLIAMO DISTRUGGERE LO SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI E DEGLI STUDENTI. SALVIAMOCI DA SOLI.

Noi non crediamo alla forza del popolo. De Gaulle salvaci tu. 
NOI SAPPIAMO CHE SOLO IL POPOLO DIRIGE IL SUO DESTINO. SALVIAMOCI DA SOLI.

Noi non crediamo all’intelligenza e all’immaginazione. De Gaulle salvaci tu. 
NOI DISTRUGGIAMO LE BARRIERE DELL’ABITUDINE, DELLA STUPIDITÀ E DELLA NOIA. SALVIAMOCI DA SOLI.

Noi non crediamo alla responsabilità degli individui e alla fraternità fra gli uomini. De Gaulle salvaci tu. 
NOI PROCLAMIAMO IL DIRITTO DI CIASCUNO ALLA VERITÀ E ALL’INIZIATIVA. SALVIAMOCI DA SOLI.

Noi vogliamo che nulla si muova, fino all’immobilità della tomba. De Gaulle salvaci tu. 
NOI VOGLIAMO LA RIVOLUZIONE DEI CUORI, DEGLI SPIRITI, DELLE ISTITUZIONI, DELLA VITA. SALVIAMOCI DA SOLI.

COMITATO D’AZIONE DE L’EPÉE DE BOIS 
(Francia, Volantino maggio 1968)

giovedì 22 gennaio 2015

A quali bambini lasceremo questo mondo?

il superamento del capitalismo non può consistere nel trionfo di un soggetto creato per lo stesso sviluppo capitalista. Tuttavia, le teorie di emancipazione hanno da tempo concepito il superamento esattamente in questa maniera. Il capitalismo è stato considerato come la cattiva gestione, ingiusta e parassitaria, di qualcosa che in quanto è altamente positiva: il progresso e la società industriale creata dal lavoro proletario, le scienze e la tecnologia. Sovente, il comunismo è stato perciò concepito come la semplice continuazione delle "acquisizioni" del capitalismo, portata avanti da altri soggetti e per mezzo di un altro regime di proprietà, e non come una profonda rottura. La valorizzazione positiva del "soggetto" nelle teorie di emancipazione tradizionali presupponevano che il soggetto era la base del superamento (e non la base dello sviluppo) del capitalismo e che bisognava aiutare il soggetto a dispiegare la sua essenza, a sviluppare il suo potenziale, soggetto che in quanto tale non ha niente a che vedere con il sistema di dominio. La rivoluzione avrebbe permesso allora, per esempio, di estendere il lavoro a tutta la società, facendo di ciascuno un lavoratore. Tutt'al più, avrebbero dovuto sbarazzarsi di qualche influenza corruttrice; ma non c'era bisogno di mettere in discussione la loro esistenza in quanto operai, lavoratori informatici, ecc. La speranza rivoluzionaria nel soggetto non si domanda cosa costituisca questo soggetto e se esso non contenga, nella sua struttura profonda, degli elementi del sistema delle merci, cosa che spiegherebbe la sorprendente capacità di questo sistema di perpetuarsi, di rigenerarsi e di "recuperare" i suoi critici. La sostanza di questo soggetto può essere descritta in modo diverso, e perfino in maniera opposta. Per il movimento operaio tradizionale, si tratta del lavoro produttivo che è la medaglia del proletariato; per l'estrema sinistra degli anni settanta, poteva trattarsi della resistenza al lavoro, della creatività personale, del "desiderio". Ma la struttura concettuale rimane identica: lo sforzo rivoluzionario al fine di permettere alle questioni fondamentali del soggetto di emergere e trionfare contro le restrizioni che gli vengono imposte da una società artificiale che serve solo gli interessi di una minoranza.
Alla ricerca del famoso "soggetto rivoluzionario": sono stati indicati, di volta in volta, gli operai, i contadini, gli studenti, gli emarginati, le donne, gli immigrati, le popolazione del sud del mondo, i lavoratori "immateriali", i lavoratori precari. Questa ricerca era destinata al fallimento; ma non perché non esista il soggetto, come predicano lo strutturalismo ed il post-strutturalismo. I soggetti esistono assai bene, ma non sono l'espressione di una "natura umana", anteriore ed esterna ai rapporti capitalisti; sono il prodotto dei rapporti capitalisti che, in cambio, riproducono. Gli operai, i contadini, gli studenti, le donne, gli emarginati, gli immigrati, i popoli del sud del mondo, i lavoratori immateriali, i precarizzati, di cui la forma-soggetto, con il suo modo di vita, le sua mentalità, le sue ideologie, ecc., viene creata o trasformata dalla socializzazione di mercato, non può essere mobilitata, in quanto tale, contro il capitalismo. Di conseguenza, non ci possono essere delle rivoluzioni operaie, contadine oppure di precarizzati, ma solo delle rivoluzioni di coloro che vogliono farla finita col capitalismo e colla forma-soggetto che gli viene imposta, e che ciascuno ritrova in sé stesso. "Invece di chiederci, come fanno gli ecologisti: che mondo lasceremo ai nostri figli? Dovremmo domandarci: a quali bambini lasceremo questo mondo?" (Jaime Semprun).

G.R.U. – Officine Schwartz

Che razza di gioco è questo?
Quando lei si alza, lui si alza
Quando lei si abbassa, lui si abbassa
Quando i suoi arti stridono e il suo cuore freme
lui stride tra i denti e freme tra le labbra.

Lo portano via, lui urla isterico
Disperato perché lo allontanano dalla sua amata GRU.

Imponenti, grandiose gli appaiono le gru
Minuscole e volgari le creature che lo circondano.

Grande Rumore Universale
Esploderà
Grande Rumore Universale
ESPLODERÀ

Perché ognuno a modo suo scopre ciò che deve amare
e lo fa davvero.
La finestra si fa specchio
Si diventa ciò che si ama.


L'individualista contro l'autorità di Emile Armand

La lotta contro l'alienazione è la lotta contro l'autorità in qualunque modo questa abbia origine o si manifesti. L'autorità consiste nell'oppressione che grava sopra un individuo o sopra una collettività per forzarli o indurli ad acquisire delle abitudini mentali, a compiere gesti, a conformarsi ai termini di contratti che mai sono stati sottoposti al loro esame; quindi nella coercizione che li obbliga e li induce, senza possibilità di discussione o di opposizione, a compiere degli atti che se fossero lasciati alla loro volontà, certo non compirebbero. Come si vede, Armand fa propria la più classica concezione anarchica, secondo cui il rapporto di dominazione non ha particolari caratteristiche sociali, economiche o politiche perché è un rapporto neutro, universale: si applica indifferentemente ad ogni situazione storica, ad ogni contesto collettivo o individuale. Vi è dominazione laddove alcuni individui obbligano altri, non importa come, a far qualcosa contro la loro volontà. In questo senso non vi è solo un potere politico, economico, civile e militare. Il criterio individualista denuncia altresì una dominazione religiosa, morale, intellettuale, l'autorità dei pregiudizi, dei costumi, delle abitudini, delle convenzioni, delle tradizioni famigliari; l'autorità delle formule, dei dogmi, delle professioni di fede, dei programmi, la dominazione delle scuole, delle chiese, dei partiti, delle sette, dei gruppi. Insomma, denuncia la trasversalità del principio di autorità quale trama riproduttiva e neutra dell'intero universo storico-sociale.
Al rivolgimento politico-sociale va sostituita un'azione che, prima di attaccare le strutture oggettive del potere, deve minarne i fondamenti etico-culturali. Si tratta di creare una orientazione nuova della mentalità, molto più efficace della costituzione fittizia di un nuovo assetto sociale.
E' da individuo a individuo che deve anzitutto propagarsi questa nozione: che è un crimine forzare qualcuno ad agire diversamente da come egli crede utile, o vantaggioso, o gradevole per la propria conservazione, per il proprio sviluppo e per la propria felicità. E' ciò anche perché ogni forzatura è sempre inutile e porta risultati opposti a quelli perseguiti. In conclusione, la trasformazione rivoluzionaria rimane priva di reale effettività, senza una preliminare educazione e iniziazione dell'ambiente ove essa dovrà svolgersi.   

giovedì 15 gennaio 2015

La dittatura del consumabile

Nell’economia dominata dagli imperativi di produzione de capitalismo di libero-scambio, la ricchezza conferisce da sola la potenza e gli onori. Nella dittatura del consumabile, il denaro fonde come neve al sole. La sua importanza deve decrescere a profitto di oggetti, più rappresentativi, più tangibili, meglio adatti allo spettacolo dello Welfare State. Il suo impiego non è già contingentato dal mercato dei prodotti di consumo che diventano, rivestiti di ideologia, i veri segni del potere? La sua ultima giustificazione risiederà ben presto nella quantità di oggetti e di gadget che esso permetterà di acquistare e di consumare a ritmo accelerato; nella loro quantità e nella loro successione esclusivamente, perché nello stesso tempo la distribuzione di massa e la standardizzazione tolgono loro automaticamente l’attrattiva della rarità e della qualità. La facoltà di consumare molto e a cadenza rapida, cambiando macchina, alcool, casa, telefonino, ipod, tablet, radio, donna/uomo, indica ormai sulla scala gerarchica il grado di potere al quale ciascuno può pretendere. Dalla superiorità del sangue al potere del denaro, dalla superiorità del denaro al potere dei gadget, la civiltà cristiana e socialista raggiunge il suo stadio estremo: una civiltà del prosaicismo e del dettaglio volgare.
Il potere d’acquisto è la licenza di acquistare potere. Il vecchio proletariato vendeva la sua forza-lavoro per la propria sussistenza; il suo scarso tempo libero egli lo viveva, bene o male, in discussioni, liti, giochi di osteria e d’amore, in strada, in feste e in sommosse. Il nuovo proletariato vende la sua forza-lavoro per consumare. Quando non cerca nel lavoro forzato un promozione gerarchica, il lavoratore e invitato ad acquistare degli oggetti che lo ancoreranno agli indici della scala sociale.
È venuto il tempo in cui l’ideologia del consumo diviene consumo di ideologia.  

LA FINE DI OGNI UOMO

Vi scrivo dai paesi dell’ATROCE, vi scrivo dalla capitale di folla addormentata. È venuta per me la fine di ogni uomo: perché bisogna produrre, bisogna, con tutti i mezzi di attività possibili, sostituire la natura ovunque possa essere sostituita, occorre trovare all’inerzia umana un campo più vasto, bisogna che l’operaio abbia di che occuparsi, bisogna creare nuovi campi di attività, e finalmente questo sia il regno di tutti i falsi prodotti fabbricati, di tutti gli ignobili surrogati sintetici, in cui non ha niente a che fare la bella vera natura, e deve cedere il posto una volta per tutte e vergognosamente a tutti i trionfali prodotti della sofisticazione, in cui lo sperma di tutte le fabbriche di fecondazione artificiale sarà finalmente utilizzato.
Le macchine sono diventate i corpi visibili di titani partoriti dal cervello di eroi decaduti, così gli uomini sono ormai incamminati senza scampo sul cammino che li porterà gradatamente e magicamente a trasformarsi in macchine, finché un giorno spogli di tutto si troveranno ad essere come meccanismi a orologeria cigolanti in perenne febbrile agitazione,  come ciò che da sempre cercano di inventare: un infelice moto perpetuo.
Il vero volto della morte moderna, fatta dalla connessione oggettiva, senza difetto, rapida, di tutti i termini di un sistema.
Le nostre vere necropoli non sono più i cimiteri, gli ospedali, le guerre, le ecatombi: sono le sale del laboratori elettronici, spazi bianchi, depurati da qualsiasi rumore umano – bara di vetro dove si congela tutta la memoria sterilizzata del mondo – una quintessenza del mondo che oggigiorno si sogna di seppellire sottoforma di microfilm e d’archivi (Paesaggi per abolire le grida).
Alla scienza piacciono i piccioni decerebrati, le macchine tristi e precise, tristi e precise come un termocauterio che seziona un viscere, mentre l’ammalato appiattito dall’etere giace in un fondo indifferente e remoto.
Non più frutta, alberi, legumi, piante farmaceutiche o no e di conseguenza non più alimenti, ma prodotti sintetici, a sazietà, nei vapori, negli umori speciali dell’atmosfera, su particolari assi delle atmosfere ricavate di forza e per sintesi dalle resistenze di una natura che la guerra e che della guerra ha conosciuto solo la paura.
E viva la guerrà, non è così?
Perché è proprio la guerra che gli americani hanno preparato e preparano giorno dopo giorno.
Non sappiamo più. Nessuno di noi sa qualcosa più dell’altro.
Questo è scombussolato. Quello è confuso. Tutti sono smarriti. La calma non c’è più.
La saggezza non dura il tempo di un’ispirazione.
Chi sul nostro suolo riceve ancora il bacio della gioia in fondo al cuore?
Si vive indifferenti nell’orrore. Non abbiamo più le nostre parole. Sono indietreggiate dentro di noi.
In verità vive, erra fra noi, la faccia della bocca perduta.

I RIBELLI DI CAPITAN NEMO e LAME DI LUNA  

(Volantino distribuito a Torino negli anni ’90)

La natura repressiva del sistema

Lo stesso obbiettivo che si iscrive nel monopolio della violenza istituzionale e della morte si realizza altrettanto bene nella sopravvivenza forzata, nel forcing della vita per la vita (reni artificiali, rianimazione intensiva, agonie prolungate a qualsiasi costo, trapianti d'organo, etc.). Tutte procedure che equivalgono a disporre della morte e a imporre la vita - secondo quale finalità?
Dietro tutte le contraddizioni apparenti, l'obbiettivo è certo: assicurare il controllo su tutta l'estensione della vita e della morte.
Dal birth-control al death- control, che si giustizzino le persone o le si obblighino a sopravvivere - e la proibizione di morire è la forma caricaturale, ma logica, del progresso della tolleranza - l'essenziale è che la possibilità di decidere venga loro sottratta, che non siano mai libere della loro vita e della loro morte, ma che muoiano e che vivano su vidimazione sociale. E' già troppo che siano ancora lasciate al caso biologico della morte, perchè è sempre una forma di libertà.
Qualsiasi morte o violenza che sfugga a questo monopolio di stato è sovversiva prefigurazione dell'abolizione del potere. Il fascino esercitato dai grandi omicidi, banditi o fuorilegge deriva da questo, e raggiunge in effetti quello proprio delle opere di arte: qualcosa della morte e della violenza è strappato al monopolio di stato per essere trasferito ad una reciprocità selvaggia, diretta, simbolica, della morte.
Ovunque emerge una resistenza ostinata, feroce, a questo principio di accumulazione, di produzione e di conservazione del soggetto, in cui esso può leggere la propria morte programmata. Ovunque si gioca la morte contro la morte. In un sistema che mira a vivere e a capitalizzare la vita, la pulsione di morte è l'unica alternativa. In un universo regolato minuziosamente un universo della morte realizzata, l'unica tentazione è quella di normalizzare tutto mediante la distruzione.
L'ordine detiene la morte, ma non può giocarla - vince soltanto chi gioca la morte contro di esso.

giovedì 8 gennaio 2015

La morte come scarsità

La morte scompare o si attenua quando il sistema, per un motivo o per un altro ne ha interesse. Non conquista sociale né progresso: ma logica del profitto, o del privilegio.
Ma questa analisi è del tutto insufficiente: non fa che sostituire una razionalità economica ad una razionalità morale. E' in gioco ben altro, una ipotesi pesante, rispetto alla quale l'interpretazione materialistica appare come una ipotesi leggera. Perchè il profitto può essere un effetto del capitale, non è mai la legge profonda dell'ordine sociale. La sua legge profonda è il controllo progressivo della vita e della morte. Il suo obbiettivo è dunque di strappare anche la morte alla differenza radicale per sottometterla alla legge delle equivalenze. E l'ingenuità del pensiero umanistico (liberale o rivoluzionario) è di non accorgersi che il suo rifiuto della morte è sostanzialmente lo stesso di quello del sistema: il rifiuto di qualcosa che sfugge alla legge del valore. E' solo in questo senso che la morte è un male. Ma il pensiero umanistico, invece, nè fa un male assoluto. A partire da ciò esso si ingarbuglia nelle peggiori contraddizioni. Claude Glayman in Le Mond : " la convinzione irrimediabilmente umana che nessun uomo ha il diritto di dare volontariamente la morte. La vita è sacra. Anche senza una fede religiosa, se ne è profondamente persuasi. Nella società dei consumi, che tende a bandire la scarsità, la morte è, se così si può dire, ancora più intollerabile (la vita come bene di consumo, la morte come scarsità). Anche qui prevale l'impressione di una specie di permanenza del medioevo. In che società viviamo? Verso quali lidi stiamo andando? Perchè non bisogna voltare le spalle alla vita! Quale che essa sia!"
Esattamente l'ingresso nella morte a ritroso, principio di base delle anime pie - sono gli stessi che entrano nella rivoluzione a ritroso, volgendo comunque le spalle alla vita, acrobazia inverosimile, ma caratteristica della torsione del pensiero logico su stesso per soddisfare il suo rifiuto della morte.
Tutto è cambiato, e nulla è cambiato: sotto i segni dei valori della vita e della tolleranza, è sempre lo stesso sistema di sterminio, ma con delicatezza, che governa la vita quotidiana - e questo non ha nemmeno più bisogno della morte per realizzare i suoi obbiettivi.

NOTTURNO MARE di Xavier Villaurrutia

Né il tuo silenzio, duro cristallo di roccia,
né il freddo della mano che mi tendi,
né le tue parole secche, senza tempo né colore,
né il mio nome, nemmeno il mio nome,
che pronunci come cifra nuda di significato;

né la ferita profonda, né il sangue
che sgorga dalle tue labbra, palpitante,
né la distanza ogni volta più fredda
lenzuolo neve di ospedale inverno
teso tra di noi come il dubbio;

nulla, nulla potrà essere più amaro
del mare che porto dentro, solo e cieco,
il mare antico Edipo che mi rincorre a tentoni
da tutti i secoli,
quando il mio sangue ancora non era il mio sangue,
quando la mia pelle cresceva nella pelle di un altro corpo,
quando qualcuno respirava per me perché ancora non esistevo.

Il mare che sale muto fino alle mie labbra,
il mare che mi satura
con il mortale veleno che non uccide
poiché prolunga la vita e duole più del dolore.
Il mare che fa un lavoro lento e lento
forgiando nella caverna del petto
il pugno adirato del mio cuore.

Mare senza vento né cielo,
senza onde, disorientato,
notturno mare senza spuma sulle labbra,
notturno mare senza collera, fedele
a leccare le pareti che lo tengono imprigionato
e schiavo che non rompe le sue sponde
e cieco che non cerca la luce che gli rubarono
e amante che solo brama il proprio disamore.

Mare che trascina spoglie silenziose,
oblii dimenticati e desideri,
sillabe di ricordi e rancori,
sogni affogati di neonati,
profili e profumi mutilati,
fibre di luce e naufraghi capelli.

Notturno mare amaro
che circola in stretti corridoi
di coralli arterie e radici
e vene meduse capillari.

Mare che tesse nell’ombra la sua trama oscillante,
con azzurri aghi infilati
di fili e nervi e tesi cordami.

Notturno mare amaro
che inumidisce la mia lingua con la sua lenta saliva,
che fa crescere le mie unghie con la forza
del suo segno oscuro.

Il mio udito segue il suo segreto rumore,
sento crescere le sue rocce e le sue piante
che allargano e allargano le sue labbra e le dita.


RENZO NOVATORE

Abele Ricieri Ferrari, più noto come Renzo Novatore l’ho incontriamo già nel maggio del 1910, quando appena ventenne, fu arrestato per l’incendio della chiesa della Madonna degli Angeli a Arcola. Liberato dopo tre mesi di carcere, si affrettò a dimostrare ai compagni che quella che poteva sembrare solo una bravata di giovani teppisti di paese era in realtà l’inizio di una militanza politica che si sarebbe snodata nel decennio successivo sul filo di una coerenza rigida e intransigente. La sua scelta ideologica lo portò a definirsi subito come anarchico individualista, scaraventandolo nel clima arroventato delle polemiche tra interventisti e neutralisti, pacifisti e rivoluzionari che scompigliarono le file dell’anarchia italiana a ridosso della Prima guerra mondiale. Dichiaratosi fermamente contro la guerra, Novatore, il 31 ottobre 1918, fu condannato a morte, per diserzione, amnistiato fu restituito alla politica e alla piazza. Nel 1920 a La Spezia, nei tumulti seguiti all’occupazione delle fabbriche, guidò l’assalto a una polveriera della Regia Marina.
Dopo la sconfitta di questi ultimi sussulti rivoluzionari che segnarono l’epilogo del biennio rosso, Novatore fondò una nuova rivista, Vertice, insieme, tra gli altri, al pittore futurista Giovanni Governato.
Nell’estate del 1922 gli squadristi assalirono a mano armata la casa di Novatore, ad Arcola. L’anarchico ne uscì vivo difendendosi con le bombe a mano. Da quel momento, le alternative che gli si posero diventarono nette e inequivocabili: poteva normalizzarsi accettando, come fecero alcuni suoi compagni, di aderire al movimento di Mussolini; poteva scegliere di ritirarsi, sprofondando in un anonimato che lo ponesse al riparo da rappresaglie e vendette postume; poteva decidere di continuare la sua battaglia, combattendo il fascismo così come aveva fatto fino ad allora combattendo le altre ideologie dominanti.
Fu questa la strada che decise di percorrere, e lo fece a modo suo. Si unì a una banda di rapinatori capeggiata dall’anarchico Sante Decimo Pollastri, piemontese di Novi Ligure, più volte incarcerato e condannato per furti e rapine. Il 14 luglio 1922, la banda assalì il ragioniere Achille Casalegno, cassiere della filiale di Tortona della Banca agricola italiana; a un suo tentativo di resistenza gli spararono, uccidendolo. Il 29 novembre a Teglia, una frazione di Rivarolo ligure alle porte di Genova, sorpreso in un’osteria, l’anarchico cadde in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Sul suo cadavere furono trovate due rivoltelle cariche e una bomba sipi, oltre a un anello con il cianuro nel castone. Sante Pollastri riuscì invece a fuggire; ma questa è un’altra storia.

giovedì 1 gennaio 2015

Una malattia per ogni pillola

Trent’anni fa Henry Gadsen, direttore della casa farmaceutica Merck, dichiarò alla rivista Fortune: "Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque". A distanza di tre decenni il suo sogno sembra essersi avverato: le strategie di marketing delle maggiori case farmaceutiche hanno infatti oggi come target non i malati ma le persone sane. Questo processo, già evidenziato più di vent’anni fa da Ivan Illich in Nemesi Medica, sembra mirare a trasformare in un futuro prossimo tutte le persone in buona salute in altrettanti – più o meno potenziali – malati.
Ma è possibile creare ad arte una malattia? La storia recente ci insegna di sì, per esempio agendo sui parametri che stabiliscono il confine tra normalità e malattia (è il caso del diabete o dei livelli di colesterolo nel sangue), oppure etichettando come “patologie” condizioni e atteggiamenti che connotano piuttosto tratti di personalità (ansia, timidezza, noia), particolari fasi della vita (menopausa, vecchiaia) o semplici caratteristiche fisiche (calvizie, cellulite). In quest’ottica si inserisce il fenomeno del disease mongering, (commercializzazione di malattie), la frontiera del marketing farmaceutico nell’era contemporanea.
Mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti.
l disease mongering, opera attraverso strategie che agiscono su tre piani: quantitativo, temporale e qualitativo.
Sul piano quantitativo, l’azione è sui parametri che definiscono la frontiera del “patologico” per numerose condizioni medico sanitarie, quali per esempio ipertensione, ipercolesterolemia o diabete. É evidente che più si ampliano i confini che definiscono una malattia, più si espande il bacino dei potenziali pazienti e, con esso, il relativo mercato dei produttori di farmaci. Le decisioni in merito a tali confini, spesso prese da “esperti” con legami finanziari con l’industria farmaceutica e sulla base di studi da essa sponsorizzati, hanno l’effetto di trasformare da un giorno all’altro milioni di individui soggettivamente sani e probabilmente oggettivamente sani, in persone ammalate.
La seconda dinamica opera sul piano temporale e, consiste nella promozione e nella diffusione di pratiche di screening la cui efficacia è incerta oppure non ancora dimostrata (ad esempio l’utilizzo del marker tumorale Ca 19.9 per l’identificazione precoce del cancro al pancreas). A questo proposito, Domenighetti scrive: “Se l’abbassamento dei parametri che definiscono i confini del patologico costituisce una medicalizzazione praticamente forzata ed in parte occulta di intere fasce di popolazione, la promozione ed il successo degli screening in particolare quelli di massa dipende in grande misura dalla capacità dei promotori di convincere la popolazione a sottoporsi a questo o quel dépistage". L’operazione ha già avuto pieno successo. Infatti gli ideologi degli screening hanno fatto passare nella società civile l’irresistibile logica secondo la quale è sempre meglio diagnosticare qualsiasi situazione il più presto possibile  (non è detto che tale situazione individuata dallo screening,  rappresenti effettivamente uno stato patologico).
Una terza e ultima dinamica, che agisce sul piano qualitativo, è rappresentata dalla trasformazione in condizioni medico-sanitarie di situazioni che dovrebbero far parte della normalità della condizione umana. Le persone vengono persuase che problemi che prima accettavano come un semplice inconveniente, o comunque come parte della vita, debbano ora destare preoccupazione e siano degni di un intervento a livello medico.
Le strategie di allargamento del mercato farmaceutico qui delineate si servono naturalmente di pubblicità a tappeto e di abili “campagne di sensibilizzazione”. Le case farmaceutiche oggi promuovono non solo i propri farmaci, ma anche i disturbi necessari a creare il mercato per i propri prodotti.
Il disease mongering è una pratica insidiosa, spesso invisibile, che comporta il rischio di scelte terapeutiche inopportune, malattie iatrogene e sprechi che minacciano la sostenibilità economica dei nostri sistemi sanitari e sottraggono risorse utili alla cura e prevenzione di patologie ben più gravi e reali. A un livello più profondo, il disease mongering contribuisce a modificare il modo in cui vengono percepite la salute e la malattia, promuovendo la medicalizzazione della vita e focalizzando l’attenzione esclusivamente su soluzioni farmacologiche (o tecnologiche in senso lato) in definitiva rappresentando elemento fondamentale nel progetto  di un definitivo controllo dell'essere umano .

LA CORRUZIONE IL VIZIO LA VIOLENZA di Tom Gries

In una prigione statunitense, nell'Utah, giungono contemporaneamente Jonathan Paige, un professore di scienze politiche, che deve scontare un anno di carcere per omicidio involontario, e Brian Courtlend, che qui comincia la carriera di guardia carceraria, e che la guerra nel Vietnam, cui ha preso parte, lo ha cambiato conferendogli una coscienza democratica. Nella prigione la fa da padrone l'ergastolano Hugo Slocum, che, per mantenere il potere e la libertà di spacciare droga, corrompe direttore, guardie e detenuti. Slocum vorrebbe assoggettare anche il professore, cui è stato affidato un lavoro nell'infermeria. Ma Paige non solo non acconsente, ma mette addirittura in crisi la rete per lo spaccio della droga. Allora, l'ergastolano violenta un giovane amico del professore costringendolo al suicidio; poi fa uccidere un altro detenuto, colpevole d'averlo tradito. Jonathan Paige, dopo tutti questi soprusi riesce ad ucciderlo con una pistola capitatagli inopinatamente tra le mani. Dal canto suo, Brian Courtlend, dopo aver tentato inutilmente di richiamare al proprio dovere il direttore del carcere interviene nello scontro uccidendo per errore Paige. Poi, si dimette dall'incarico ripromettendosi di denunciare l'accaduto.
La corruzione, il vizio e la violenza (The Glass House, 1972) di Tom Gries, ispirato al romanzo-inchiesta di Capote sulla vita carceraria in un penitenziario modello fra le montagne dello Utah: in questa struttura all'avanguardia tecnologica, con pareti di vetro per permettere una maggiore visibilità, va in scena invece un rito infernale di violenza e disumanità. Film straordinariamente teso, fino a toccare momenti di drammaticità sconvolgente, il film rifiuta sia i luoghi comuni - tipici della numerosa letteratura cinematografica carceraria - sia le compiacenze di esteriore spettacolarità, come l'abuso di linguaggio scurrile e l’utilizzo spettacolare di particolari sul vizio o sulla violenza.
Questa casa di vetro non è soltanto la prigione. Il film di Tom Gries è qualcosa di più della tradizionale denuncia del sistema carcerario, inteso come repressione e vendetta della società.
Il suo merito è di ricreare all'interno della prigione quel processo di corruzione della società che avviene fuori, nel mondo normale. Il traffico di droga, la complicità dei secondini e delle gerarchie carcerarie, su su fino al direttore, il silenzio che guida questa sopraffazione non sono altro che la medesima omertà, lo stesso processo di degradazione che una società sana vede compiersi all'interno di se stessa da parte delle forze del male annidate sia nelle democrazie che nei paesi totalitari di tutto il mondo.
The Glass House s’inserisce nella linea del film sociale americano, ripreso nella variante del film di prigione: descrizione critica verista e nello stesso tempo metaforica di un microcosmo repressivo, che rimanda al sistema nella sua totalità.


Perché la bandiera nera? Di Emma Goldman

La bandiera nera è il simbolo dell'Anarchia. Essa provoca reazioni che vanno dall'orrore alla delizia tra quelli che la riconoscono. Cercate di capire cosa significa e preparatevi a vederla sempre più spesso in pubblico. Gli Anarchici sono contro tutti i governi perché credono che la libera ed informata volontà dell'individuo sia la vera forza dei gruppi e della stessa società. 
Gli Anarchici credono nell'iniziativa e nella responsabilità individuali e nella completa cooperazione dei gruppi composti di liberi individui. I governi sono l'opposto di questi ideali, dato che si fondano sulla forza bruta e la frode deliberata per imporre il controllo dei pochi sui molti. Che questo processo crudele e fraudolento sia giustificato da concetti come il diritto divino, elezioni democratiche, o un governo rivoluzionario del popolo conta poco per gli Anarchici. Noi rigettiamo l'intero concetto stesso di governo e ci affidiamo in modo radicale alla capacità di risoluzione dei problemi propria di ogni uomo libero.
Perché la bandiera nera? Il nero è il colore della negazione. La bandiera nera è la negazione di tutte le bandiere. È la negazione dell'idea di nazione che mette la razza umana contro se stessa e nega l'unità di tutta l'umanità. Il colore nero è il colore del sentimento di rabbia e indignazione nei confronti di tutti i crimini compiuti nel nome dell'appartenenza allo stato. È la rabbia e l'indignazione contro l'insulto all'intelligenza umana insito nelle pretese, ipocrisie e bassi sotterfugi dei governi.
Il nero è anche il colore del lutto; la bandiera nera che cancella le nazioni è anche simbolo di lutto per le loro vittime, i milioni assassinati nelle guerre, esterne ed interne, a maggior gloria e stabilità di qualche maledetto stato. È a lutto per quei milioni il cui lavoro è derubato (tassato) per pagare le stragi e l'oppressione di altri esseri umani. È a lutto non solo per la morte del corpo, ma anche per l'annullamento dello spirito sotto sistemi autoritari e gerarchici. È a lutto per i milioni di cellule grigie spente senza dar loro la possibilità di illuminare il mondo. È il colore di una tristezza inconsolabile.
Ma il nero è anche meraviglioso. È il colore della determinazione, della risoluzione, della forza, un colore che definisce e chiarifica tutti gli altri. Il colore nero  il mistero che circonda la germinazione, la fertilità, il suolo fertile che nutre nuova vita che continuamente si evolve, rinnova, rinfresca, e si riproduce nel buio. Il seme nascosto nella terra, lo strano viaggio dello sperma, la crescita segreta dell'embrione nel grembo materno - il colore nero circonda e protegge tutte queste cose.
Così il colore nero è negazione, rabbia, indignazione, lutto, bellezza, speranza, è il nutrimento e il riparo per nuove forme di vita e di relazioni sulla e con la terra. La bandiera nera significa tutte queste cose. Noi siamo orgogliosi di portarla, addolorati di doverlo fare, e speriamo nel giorno nel quale questo simbolo non sarà più necessario.