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giovedì 31 dicembre 2015

Sulla delazione nel mondo moderno

Fare il delatore significa segnalare qualcuno ad altri perché questi ultimi facciano giustizia del primo.
Ci sono nove tipi di delatori:
Quelli che lo sono per natura.
Il delatore di mestiere. È la figura più conosciuta. Di solito opera, nella più grigia routine, per conto delle amministrazioni pubbliche a cui si lega per contratto.
L’idealista della delazione. È una persona che, avendo deciso per conto suo dove sta il male e dove sta il bene, vorrebbe sconfiggere il primo segnalandolo alle forze del bene.
Il delatore filantropo. Disprezza fra sé la delazione come la più turpe delle infamie, ma è abbastanza spregiudicato da riconoscere che essa è insita nella stessa vita associata. “Ci sarà sempre chi fa la spia” dice.
Il delatore malgré soi. Come il precedente detesta la delazione, ma il suo sentimento non va al di là dell’intenzione, perché quando poi l’autorità lo sollecita con garbo a riferire qualche cosa, non sa mai negare la sua collaborazione, siccome la reticenza gli sembra scortese, poco consona alle convenzioni del vivere civile.
Il delatore ioci causa. È un burlone cinico, convinto che la realtà sia mera parvenza. Così, per un capriccio che ai più pare senza motivo, non esita a rivelare le colpe, qualche volta vere, più spesso immaginarie. Sceglie di agire nell’anonimato per continuare i suoi giochi il più a lungo possibile.
Il delatore naif. È il più inefficace di tutti perché non comprende mai le aspettative di chi lo inquisisce. Ben disposto a rivelare tutto ciò che gli si chiede, vuole strafare, e, per questa sua foga nel servire, finisce sempre per risultare inattendibile.
Il delatore per ambizione. Pur di rovinare altri, non esita a rovinare anche se stesso. Di norma accusa i complici (veri o fittizi) quando i ferri stringono già i polsi, ma se ne sono visti molti denunciare se stessi addirittura dalla libertà, soltanto per dare più credito agli addebiti che muovevano ad altri. Persona indifferente ai modesti piaceri che offre la vita, non esita a rinunciarvi e accetta di dannarsi pur di mettere in mostra ad ogni costo la propria figura, altrimenti anonima.
Il delatore galante. È un uomo di coraggio che saprebbe patire la tortura senza rivelare nulla agli inquisitori. Alle donne invece non nasconde mai nulla, senza neanche bisogno di lusinghe. Fa così per vantarsi di saperla lunga su tutto e per darsi arie da uomo di mondo, capace di condursi nel bene come nel male, nel lecito e nell’interdetto.
Il delatore reticente. Di solito è un giovane intransigente, deciso a non scendere ad alcun compromesso con le autorità. Ed è proprio la sua ostinazione nel tacere comunque a rovinare i suoi complici, perché il suo contegno insinua nell’autorità i sospetti più atroci.  

Violenza ed alienazione

L’oligarchia politico-economico-sociale, si mantiene al potere con l’uso costante dell’autorità. Solo facendo sentire costantemente alle masse la presenza di questa potenza superiore, si può frenare ogni volontà di rivolta. I mezzi di cui la classe dominante si serve a tale scopo sono di natura diretta, o violenta, e di natura indiretta. Nel primo gruppo si comprendono tutti gli ordinamenti repressivi che fanno capo allo stato, e cioè alla burocrazia, esercito, magistratura, chiesa, con i quali le masse sfruttate sono tenute a freno e soggiogate; nel secondo, tutti gli espedienti usati per distogliere gli oppressi da ogni opposizione al potere: in questi ultimi sono maestri il neo-capitalismo e la classe politico moderna, che creano nelle masse menefreghismo e assenteismo con lo sport, con la religione, con le canzoni, con periodici aumenti del salario che non giovano mai ai salariati, fino ad abituare le masse a pensare secondo un modello unico, imposto per mezzo del monopolio dei mezzi di diffusione di massa (radio, televisione, giornali, cinema, ecc.). Il primo gruppo comprende perciò i mezzi di repressione violenta, il secondo l’alienazione delle masse dalla lotta rivoluzionaria.
(Gioventù Anarchica Umbra, Perugia, novembre 1965)

Anna Kuliscioff e la questione femminile italiana

Sin da quando era anarchica, Anna Kuliscioff diede grande importanza alla causa della discriminazione della donna. D'altronde, il logoramento del rapporto con Andrea Costa fu ingenerato proprio dalla gelosia del compagno (Anna aveva un buon rapporto con Carlo Cafiero e Costa ne era molto geloso), che mal tollerava la sua emancipazione. Ciò fu causa di numerosi conflitti che poi portarono alla separazione della coppia. Alla gelosia di Costa e alla tendenza degli uomini a vedere la propria donna come un oggetto di loro proprietà, Anna risponde così: «Io alla fine vedo una cosa: agli uomini come sempre è permesso tutto, la donna deve essere di loro proprietà. La frase è vecchia, banale, ma ha le sue ragioni d’essere e l’avrà chissà per quanto tempo ancora». 
Quando poi giunge a Milano, entra in contatto con le principali esponenti del femminismo cittadino (Anna Maria Mozzoni, Paolina Schiff e Norma Casati), che nel 1882 avevano fondato la Lega per gli interessi femminili. Da questo momento in poi, la sua lotta femminista assumerà un carattere sempre più netto e marcato, che culminerà con l'intervento al Circolo filologico di Milano il 27 aprile 1890 intitolata Il Monopolio dell'uomo. La Conferenza da lei tenuta quel giorno può essere considerata  il “Manifesto della questione femminile italiana” che pone sotto una nuova luce, anche per gran parte dei socialisti del tempo, la questione della subordinazione femminile nella società e nella famiglia, negando che sia un fatto naturale antropologico. Solo  il lavoro sociale, retribuito al pari dell'uomo, può portare la donna alla conquista della libertà, della dignità e del rispetto; senza questo  il matrimonio non fa che umiliarla in un dramma che le toglie la dignità e l'indipendenza. Netto è il suo distacco dal “femminismo “ che considera un fenomeno borghese. Continuando anche nella sua attività in favore del socialismo, Anna si scontra sulla questione femminile con il compagno Filippo Turati e con altri esponenti dell'area marxista: «L'esperienza di altre e molte donne che si alternarono a deviare dal binario tradizionale la vita femminile in genere, e soprattutto l’esperienza mia propria, m’insegnarono che, se per la soluzione di molteplici e complessi problemi sociali si affacciano molti uomini generosi, pensatori e scienziati, anche delle classi privilegiate, non è così quanto al problema del privilegio dell’uomo di fronte alla donna»
Quando all'inizio del novecento si sviluppa un dibattito intorno alla richiesta di estendere il diritto di voto a tutti gli uomini, l'ex-anarchica si batte per estenderlo anche alle donne. E quando il compagno Turati difende la posizione dei socialisti perché «la ancora pigra coscienza politica di classe delle masse proletarie femminili», Anna replica su Critica sociale: «Direte, nella propaganda, che agli analfabeti spettano i diritti politici perché sono anch'essi produttori. Forse le donne non sono operaie, contadine, impiegate, ogni giorno più numerose? Non equivale, almeno, al servizio militare, la funzione e il sacrificio materno, che da’ i figli all’esercito e all’officina? Le imposte, i dazi di consumo forse son pagati dai soli maschi? Quali degli argomenti, che valgono pel suffragio maschile, non potrebbero invocarsi per il suffragio femminile?».

Il 7 gennaio del 1912 Anna Kuliscioff fonda la rivista bimestrale «La Difesa delle Lavoratrici», che dirigerà per due anni insieme a Carlotta Clerici, Linda Malnati e Angelica Balabanoff. 
Anna Kuliscioff muore il 29 dicembre 1925 a Milano. Durante il funerale alcuni fascisti si scagliarono contro le carrozze del corteo funebre che si dirigeva verso il Cimitero Monumentale di Milano.

venerdì 25 dicembre 2015

Spazio e tempo in Eliseo Reclus

Uno dei capisaldi del pensiero anarchico classico è dato dalla teorizzazione del carattere benefico della natura e della sua alterità rispetto alla storia. Mentre questa, a seguito delle lotte feroci condotte dagli uomini per avere il potere, presenta un’immagine di disordine e di cattiveria, la natura rivela invece, se giustamente interrogata, un’intrinseca armonia ed equilibro. La società anarchica è la società che sostituisce le leggi storiche e artificiali del potere con quelle spontanee della socievolezza naturale. La natura, ovviamente, non è sempre benefica nella sua immediatezza e non è sempre mite in molte sue manifestazioni esteriori; può però essere fonte di giustizia e di libertà, se si instaura correttamente con essa un rapporto capace di cogliere l’intima razionalità che pervade la necessità del tutto. La premessa epistemologica reclusiana si fonda sull’idea di un nesso indissolubile che lega la persona all’ambiente, e dunque alla Terra. Vi è un rapporto simbiotico tra l’uno e l’altra perché la Persona ha le sue leggi come la Terra, leggi alle quali non può sottrarsi, anche se, ovviamente, ciò non implica che egli ne sia prigioniero. Senza cadere in alcuna forma di determinismo, la persona deve essere consapevole dei rapporti necessitanti che lo legano al tutto perché è solo grazie a tale consapevolezza che egli si emancipa dai lacci naturali. La geo-storia reclusiana, intenta soprattutto all’analisi delle strutture geografiche rinvenibili nei grandi spazi e nel rapporto fra evoluzione sociale e resistenze della struttura, vuole esaminare al rallentatore l’azione della persona, al fine di cogliere la verità profonda della sua azione sul globo terraqueo, in quanto solo i grandi movimenti e le grandi strutture rivelano il senso generale della vita dei popoli e delle civiltà. Ciò non toglie, ovviamente, che in Reclus rimanga sempre centrale anche l’idea dei salti di qualità del processo evolutivo, salti che avvengono sia nella storia naturale, sia nella storia umana. A suo giudizio alle lunghe e lente sequenze dell’evoluzione seguono i brevi e intensi periodi delle rivoluzioni. Il rapporto tra evoluzione e rivoluzione è un rapporto necessitante, nel senso che l’una è il complemento dell’altra. L’evoluzione prepara la rivoluzione, questa, a sua volta, spiana la strada ad una successiva evoluzione, attraverso una catena che non ha fine. L’infinita interazione fra spazio e tempo, l’individuazione della processualità storica e di rotture, e dunque il riconoscimento dell’impossibilità di un’esistenza strutturalmente gerarchica della realtà a cui il mondo dovrebbe conformarsi, spingono Reclus al rifiuto di ogni epistemologia altrettanto gerarchica e unidimensionale. L’indagine reclusiana si situa nel più classico ambito metodologico anarchico secondo cui non esiste una direzionalità univoca degli elementi della realtà, ma, appunto, un insieme assai vasto e complesso di cause interagenti fra loro in una dialettica senza fine tra natura e storia, tra natura e cultura. I termini ideologicamente anarchici del relativismo e del pluralismo si traducono perciò nei cardini metodologici di un’indagine a tutto campo. Questa sviluppa una scienza fisico-sociale che, tenendo conto dell’interazione fra spazio e tempo, fra realtà naturale ed evoluzione umana, fra determinismo geografico e relativismo storico, conclude che nei suoi rapporti con la Persona, la Geografia non è altro che la Storia nello Spazio, così come la Storia è la Geografia nel tempo. Sulla base di tale prospettiva, Reclus approda ad una sorta di interpretazione articolata di tutta l’evoluzione umana e naturale. Si devono, a suo giudizio, attivare tre fondamentali direttrici di ricerca: delineare la divisione fra le classi, individuare la spontanea tendenza a ricomporre l’equilibrio sociale spezzato da questa divisione, decifrare il contributo dello sforzo individuale nell’evoluzione collettiva. Abbiamo così, in sintesi, un compendio dell’epistemologia anarchica. Posto infatti, come abbiamo visto, il rifiuto di ogni interpretazione fondata su monocause (siano esse economiche, politiche, geografiche, etniche o culturali), egli pone sullo stesso piano analitico e valoriale la lotta sociale, il valore individuale, la spontaneità storico-naturale di una ricerca oggettiva verso l’equità e l’uguaglianza. Insomma, la storia è il risultato contemporaneo di più fattori, riassumibili nell’emancipazione collettiva, nell’azione del singolo, nella naturale tendenza verso la giustizia.

L’organizzazione delle apparenze

La critica radicale è il movimento stesso in cui i proletarizzati lottano contro il dominio del fittizio, smascherando l’organizzazione delle apparenze. Da quando il fittizio e la sua avvelenata promessa si insinuano in ogni esistenza svuotandola di ogni senso vivo e presente, trova a resisterle il furore crescente di una fame di vero e di senso, che parte dal corpo stesso della specie.
A mano a mano che in ogni forma dell’esistente si realizza un momento del valore autonomizzato, a mano a mano che l’antropomorfosi del capitale mette in scena “un’umanità” di automi, insorge a combatterla ciò che le è irriducibilmente alieno.
La lotta in processo è innanzitutto smascheramento e denuncia del falso, rottura violenta degli schemi frapposti tra il fine reale della rivoluzione e il furore degli oppressi deviato in falsi scopi. Al punto estremo di contraddizione tra capitale e vivente, il fine reale della rivoluzione non può essere meno che la distruzione del capitale e la realizzazione della specie umana quale comunità vivente in un rapporto di coerenza organica con l’universo naturale. Il dominio del capitale su una collettività sotto-umana e su un pianeta avvelenato, sempre più si rivela come l’ultimo ostacolo che separa l’autogenesi creativa della comunità-specie dal suo modo latente. È quando la critica radicale, attaccando ogni forma di rappresentazione fittizia, indica nel suo muoversi. Perciò da sempre esso suscita l’odio più nero dei gestori della finzione. Ogni sorta di amministratori fraudolenti di “crisi” parcellari, di “politiche” alternative, di “battaglie” immaginarie, trova in essa il nemico irriducibile. Essi si provano a combatterlo con i mezzi che sono loro congeniali: la calunnia, la deformazione della storia, sino al ripudio di quanto, nel passato, la loro “cultura” indica come anticipazione dello stesso movimento. 
(Tratto da PUZZ n° 20 giugno-agosto 1975)

Non vale la pena morire per nulla

Possiamo affermare, che il lavoro è un rischio per la salute. Infatti il lavoro è un assassinio di massa, cioè un genocidio. Direttamente o indirettamente il lavoro, uccide migliaia di lavoratori ogni anno, senza contare tutti quelli che rimangono invalidi. Quello che le statistiche non lasciano trapelare è il fatto che il lavoro abbrevia il tempo di vita a milioni di persone, ciò che, d’altra parte, è il significato proprio del termine omicidio.. ci riferiamo a quelle persone che si ammazzano di lavoro all’età di 50 anni, ci riferiamo a tutti i lavoro-dipendenti.
Anche se non si rimane uccisi o mutilati mentre si è effettivamente al lavoro, ciò può tranquillamente accadere mentre ci rechiamo al lavoro, o stiamo tornando dal lavoro, oppure mentre lo stiamo cercando, o tentiamo di dimenticarlo. La maggior parte delle vittime di incidenti d’auto stavano svolgendo una di queste attività legate al lavoro, oppure vennero travolte da qualcuno impegnato in esse. A questo computo di cadaveri, pur così ampliato, occorre aggiungere le vittime dell’inquinamento industriale, del traffico automobilistico, dell’alcolismo indotto dal lavoro e del consumo di droga. Anche il cancro e le malattie cardiocircolatorie sono mali moderni, e normalmente sono attribuibili, direttamente o indirettamente al lavoro.
Il lavoro, dunque, istituzionalizza l’omicidio come modo di vita.
Noi sterminiamo la gente in ecatombi esprimibili in numeri di 6 cifre per vendere automobili ai superstiti. I nostri morti che registriamo annualmente sulle nostre autostrade, fabbriche e scuole sono vittime, non martiri. Muoiono per nulla, o piuttosto, muoiono per il lavoro. Ma il lavoro è nulla, e non vale la pena morire per nulla.

giovedì 17 dicembre 2015

AUTORITA’ E GERARCHIA

Il dominio dell’uomo sul uomo, perpetuato da millenni sulla grande maggioranza dell’umanità da parte di una minoranza di privilegiati e giustificato dai suoi difensori apologisti in base al principio di autorità, è la causa diretta di tale disagio. È l’autorità di una minoranza che rende dura e poco piacevole l’esistenza alla grande maggioranza. La forma tipica di tale dominio, la sua prima più naturale espressione è la divisione della società in una complessa ma rigida gerarchia, che vede al vertice pochi, liberi, felici e privilegiati, alla base la grande massa dei servi, di coloro che ubbidiscono in silenzio, e fra questi due poli, una vasta scala di servi privilegiati, di servi innalzati dai potenti a guardiani della loro potenza.
Il sistema della divisione gerarchica è applicato in primo luogo in campo politico, con la distinzione fra un piccolo gruppo e classe dirigente, accentrata e accentratrice, un certo numero di funzionari minori e di guardie armate del potere, e una grande maggioranza di semplici cittadini, il cui compito è quello di obbedire, e – negli stati più moderni – di sottomettersi volontariamente alle decisioni prese dalla classe dirigente; in secondo luogo è applicato in campo economico, con la distinzione fra un piccolo numero di proprietari  dei mezzi di produzione, un numero variabile di aspiranti proprietari o piccoli proprietari, e la massa dei lavoratori, la cui funzione è quella di produrre e consumare beni secondo l’interesse dei proprietari del capitale.
L’identificazione storica tra le classi politiche ed economiche, a dato luogo alla distinzione della società in classi nette e separate, che vanno dai detentori del potere alle masse oppresse e sfruttate.
Gli sfruttati non altro strumento per abolire una volta per tutte le proprie condizioni e promuovere la propria emancipazione che quello della rivoluzione radicale, in tutte le sue conseguenze, totale, libertaria, nella distruzione, di ogni centro di autoritarismo che eserciti il potere dell’uomo sull’uomo.

UOMO-ERG Van Der Graaf Generator

L'assassino vive dentro di me: sì, posso sentirlo muoversi
A volte è addormentato nella tranquillità della sua stanza
Ma poi i suoi occhi si alzano e osservano attraverso i miei
Pronuncia le mie parole e taglia a fette la mia mente dall'interno 
Sì, l'assassino vive

Angeli vivono dentro di me: li sento sorridere
La loro presenza accarezza e placa la tempesta nella mia mente
Ed il loro amore può guarire le ferite che ho cesellato
Mi guardano mentre sto per cadere - beh, so che dovrei essere preso
Mentre gli angeli vivono

Come posso essere libero?
Come posso ricevere aiuto?
Sono proprio io?
Sono qualcun'altro?

Ma nascosti in silenzio nel mio chiostro sono gli accoliti delle tenebre
E la Testa della Morte getta il suo mantello nell'angolo della mia stanza,
Ed io sono condannato...
Ma ridenti nel mio cortile giocano i buffoni della mia giovinezza
E solenne, il Vecchio attende nel frontone del tetto
Mi dice la verità...

Ed anche io vivo dentro di me, e molto spesso non so chi sono:
So di non essere un eroe, beh, spero di non essere dannato
Sono solo un uomo, ed assassini, angeli, sono tutti così,
Dittatori, redentori, rifugiati in pace ed in guerra
Finché l'uomo vive...

Sono solo un uomo, ed assassini, angeli, sono tutti così,
Dittatori, redentori, rifugiati...

Margarethe Hardegger

Margarethe nacque il 20 febbraio 1882 a Berna. Nel 1902 conseguì la maturità e si avviò subito agli studi giuridici. In quel periodo conobbe Philipp August Faas, che sposò, nonostante fosse contraria al matrimonio. Dal loro incontro nacque Olga. In quegli anni iniziò a sviluppare alcuni contatti politici significativi, e infatti fondò, poco più tardi, l’Unione dei Lavoratori Tessili Cernesi, mentre suo marito entrò a far parte del Partito Socialdemocratico. Nel 1904 nacque la secondogenita Lisa. Margarethe iniziò a frequentare l’ambiente anarchico e antimilitarista. Conobbe il medico del lavoro Fritz Brupbacher e i sindacalisti radicali della Svizzera occidentale di lingua francese. Nel 1906 fondò il giornale Die Vorkämpferin (L’Antesignana), in francese L’Exploitée (La Sfruttata). Nel 1907 partecipò alla prima conferenza internazionale delle donne socialiste di Stoccarda. Nello stesso anno conobbe Ernst Frick, anarchico appartenente al gruppo zurighese Der Weckruf  (Il Risveglio), che difese, nonostante si dichiarasse nonviolenta, fornendogli un alibi che lo salvò dalla condanna per un attentato a una caserma, cosa che in seguitò le procurò delle noie legali. Margarethe si schierò sempre più decisamente a favore della nonviolenza, dell’ateismo, del controllo delle nascite, del diritto di voto per le donne. Nel 1908 prese parte al Congresso anarchico a La Chaux-de-Fonds, durante il quale sostenne le proprie tesi sull’amore libero e dove ebbe occasione di prendere le difese di un altro anarchico del Risveglio che aveva partecipato ad azioni politiche in Russia. Con alcuni anarchici cechi organizzò a Berna una serata in onore di Gustav Landauer, di cui s’innamorò. Grazie ai contatti con il dottor Brubpacher, conobbe James Guillaume, Senna Hoy, Karel Vohryzek, quest’ultimo spesso coinvolto in attività di contrabbando. Quando venne arrestato in seguito a una rapina, nelle sue tasche fu trovato un biglietto i Brubpacher in cui veniva nominata Margarethe. Per questo, e per altre vicende poco chiare in cui venne coinvolta, si alimentarono i sospetti su di lei, così che venne licenziata dalla confederazione sindacale. Nel frattempo, Landauer aveva fondato a Berlino il Sozialistischer Bund, la Lega Socialista, cui aderì anche Margarethe, contribuendo attivamente alla nascita del Der Sozialist (Il Socialista). La rivista si proponeva non come foglio meramente politico, ma anche come raccolta di riflessioni filosofiche, nel tentativo di creare un legame tra la massa e l’élite. Scriveva la Hardegger: “Poiché noi consideriamo un movimento in relazione al futuro, dato che è un movimento culturale, non vogliamo un movimento fondato sulla lotta di classe, ma sull’emancipazione dell’intera umanità. Noi abbiamo bisogno di compagni del sentimento, del pensiero, della volontà”. L’obiettivo della Lega era la creazione di una comunità autosufficiente basata sul mutuo appoggio. Nel 1909, a Monaco, s’inserì nell’ambiente bohemiénne, dove si legò a Erich Mühsam, con il quale condivise il progetto del Gruppo TAT, che aveva come scopo quello di avvicinare il sottoproletariato al mondo degli artisti. 
Nel 1912, la Hardegger dovette rispondere a numerose accuse legate alle sue frequentazioni anarchiche. Dopo tre mesi di prigione, venne rilasciata con il pretesto di un precario stato di salute mentale. Margarethe abbandonò la Lega per dedicarsi interamente alla militanza politica. Nonostante si fosse allontanata anche da Landauer, portò avanti gli ideali libertari condivisi con lui trasformando la sua abitazione, ereditata dal padre appena scomparso, in una comune. La sua battaglia attiva in difesa dell’aborto e del controllo delle nascite portò nuovamente la cattiva anarchica in prigione nel 1915, dove vi trascorse un anno. Nel 1918 la Hardegger fece parte a Coira di un movimento femminile. Poi, con il suo nuovo compagno, Hans Brunner, diede vita a un altro insediamento comunitario nei pressi di Zurigo. Trasferitasi a Minusio, nel Canton Ticino, dalla figlia maggiore, tentò un esperimento simile in un vecchio mulino (il Villino Graziella, vicino alla Baronata). Sul muro esterno compariva un detto di Landauer: “Il socialismo è la tensione della volontà di persone unite nel voler realizzare un ideale nuovo”. La sua attività libertaria continuò fino alla morte, avvenuta il 26 settembre 1963.

giovedì 10 dicembre 2015

PERCHÈ LE BOMBE (12 dicembre 1969)

Il 12 dicembre 1969 le forze di sinistra scoprono che in Italia c’è la repressione. 
È infatti in quella data che i cortei e le manifestazioni  gridano lo slogan tardivo la repressione non passerà mentre purtroppo era già passata e le bombe ne erano l’apice.
La repressione era già iniziata in modo chiaro e inequivocabile. Gli anarchici, colpiti per primi dalle manovre reazionarie con gli arresti dei compagni incarcerati per gli attentati del 25 aprile 1969, avevano capito cosa stava accadendo.  Già nel giugno 1969 sul numero uno del bollettino dell’organismo assistenziale per le vittime politiche “Crocenera anarchica” scrivevano che lo scopo delle bombe fasciste camuffate da anarchiche era di: suscitare la psicosi dell’attentato sovversivo per giustificare la repressione poliziesca e l’involuzione autoritaria; gettare discredito sugli anarchici e su tutta la sinistra. Essenziale per ottenere il secondo risultato e utile anche per il primo è di fare qualche ferito innocente o meglio ancora qualche morto. Nel numero di agosto approfondendo l’analisi , la Crocenera si domandava: “Dove vige un regime autoritario, alla vigilia della visita di qualche importante uomo di stato vengono effettuati dei controlli particolari, teste calde, sediziosi ed anarchici vengono trattenuti dalla polizia, chi per accertamenti, chi per pretesi crimini. Ci si domanda allora, in questo terribile 1969 chi diavolo sta arrivando in Italia?” La risposta era una sola: “Non ragioniamo certo come coloro che pensano ad un colpo militare alla greca, perché in Italia il colpo di stato è già stato attuato in maniera più italiana e consona allo stato delle cose”. Ma il discorso si spingeva più a fondo e coerentemente all’analisi sviluppata coglieva, purtroppo, nel segno indicando l’unica alternativa che restava alla classe dominante: creare la situazione di emergenza, la situazione intollerabile e lo stato di necessità in cui qualsiasi nefandezza è legale, creare la disperazione che faccia salutare come liberazione la perdita di libertà.
Queste parole si perserò però nell’indifferenza e sempre sul bollettino della Crocenera anarchica, subito dopo le bombe, gli anarchici scrivevano: “La strage di Piazza Fontana non ci è giunta del tutto inattesa. Da molto tempo prevedevamo e temevamo un attentato sanguinario. Era nella logica dei fatti. Era nella logica dell’escalation provocatoria iniziata il 25 aprile. Per giustificare la repressione, per seminare la giusta dose di panico, per motivare la diffamazione giornalistica e scatenare l’esecrazione pubblica ci voleva del sangue. È il sangue c’è stato”.
Purtroppo come avevamo previsto, la repressione mascherata da democratica tutela dell’ordine contro gli opposti estremismi ha continuato la sua marcia. 
(A Rivista Anarchica, numero sette, settembre-ottobre 1971)

VISIONE PER ME di Pier Felice Stefano Castrale

Io - poeta od assassino - non me ne importa nulla
girando per le strade - incatenato ai lampioni
versando fiumi di laccrime
e di parole spese male
di spianate silenziose - di cerchi ottonati
di effetti cromatici  intorno alla testa
in danze spiritose
come folletti vaganti sulla scia dei tuoi capelli
aspettando il mezzogiorno dei colpi di cannone
in camere d'affitto filtrate dal sole
in barlumi violenti di chiarezza
fra la pazzia metropolitana
nel fatalismo della zanzara sul granoturco
vagabondo lungo il fiume
sulla riva degli alti cipressi
tombini stradali fumanti di freddo
nella ferrovia sotto la mia cucina
contando le ore al passaggio dei rapidi
o nell'immobilità dei gabbiani - durante la mareggiata
forse anche nei cantieri
desolati nella pausa di mezzogiorno
o in un pò di coraggio - girar di testa - situazioni
e forse saprò il sapore della mia esistenza
dei miei fucili puntati
dei miei occhi accesi
o nascosti dalle mie 100 ciglia finte
degli sguardi gelidi buttati in strada.

Pa Kin l’anarchico cinese

Fra la generazione di intellettuali cinesi detta "del 4 maggio" e influenzata, direttamente o indirettamente, dalla cultura socialista rivoluzionaria europea - generazione cui appartengono Mao Ze Dong, Li Dha Zao, Lin Yutang - c'è un grande scrittore che scelse di mettere la sua penna al servizio indefesso della causa anarchica: Pa Kin.
Anzitutto, il nome Pa Kin è la più comune trascrizione occidentale dello pseudonimo di Li Feikan ed è formata dalla prima sillaba della pronuncia cinese di Bakunin e dall'ultima sillaba di Kropotkin. Un nome che è come una bandiera, e al quale Li Feikan resterà fedele tutta la vita, attraverso difficoltà e persecuzioni continue.
Nasce nel 1904 a Chengdun, nella regione del Sichuan, da una famiglia di alti funzionari. Rimane presto orfano e cresce in un ambiente familiare oppressivo, che rende penosa e solitaria la sua infanzia. Ma l'esperienza del dolore è per lui fondamentale: attraverso di essa, Pa Kin perviene a una visione umanitaria e solidaristica dell'esistenza, premessa alla posteriore "scoperta" dell'anarchismo. Dopo studi irregolari, s'imbarca per l'Europa. Sono anni travagliati perla Cina: la delusione per la conferenza di Versailles ed i trattati di pace, che abbandonano la Cina alle brame imperialiste nipponiche, solleva ondate di rabbia e provoca scioperi fra gli studenti e i lavoratori. Partito con l'animo acceso da questi fermenti rivoluzionari, Pa Kin approda nel 1927 a Parigi, per studiare economia. Ma ben presto abbandona definitivamente l'università. La sua antica famiglia è caduta in rovina e non può più mantenerlo. Egli vive poveramente in una casa del centro della capitale, e i rintocchi delle campane di Notre-Dame, come dirà in seguito, non fanno che sottolineare la sua tormentosa solitudine. È allora che Pa Kin fa la grande, doppia scoperta della sua vita: la letteratura e l'anarchia, viene a contatto con i circoli anarchici francesi e ne è subito conquistato. S'immerge nella lettura di Bakunin, Kropotkin, Emma Goldman, è abbagliato dalla bellezza dell'anarchismo (sono parole sue). L'impegno artistico e quello di militante di Pa Kin procedono a pari passo, con una mirabile unità e coerenza di vita. Il suo primo romanzo, Distruzione, apparso in Cina nel 1929, viene scritto nel Quartiere Latino, sotto la fortissima impressione della condanna di Sacco e Vanzetti. Intanto si prodiga anche nella redazione di articoli per la stampa del movimento libertario; conosce i capi storici del movimento; compie dei viaggi. Il ritorno in Asia avviene nel segno di uno sforzo febbrile per aiutare il suo popolo, vittima della barbarica aggressione giapponese. Ciononostante, è oggetto di violenti attacchi da parte di alcuni elementi imbevuti di un marxismo fanatico e intollerante. Pa Kin ha aderito al Fronte unito degli intellettuali cinesi contro il Giappone, e tali attacchi rientrano in una strategia di criminalizzazione di tutte le componenti rivoluzionarie non marxiste. 
Cacciati i Giapponesi nel 1945, sconfitto il Kuomintang, nel 1949 nasce la Repubblica Popolare Cinese, mentre Chiang Kai-Shek fugge a Formosa (Taiwan). 
Nel clima della "guerra fredda" e, poi, della clamorosa rottura fra Mao e l'Unione Sovietica, Pa Kin cade in disgrazia presso il nuovo governo rosso. La sua attività di giornalista anarchico, di traduttore infaticabile di Kropotkin, Goldman, Bakunin, Berkman, Reclus; le sue campagne, nel 1936-37, a sostegno della Repubblica spagnola e degli anarchici di Barcellona, costituiscono altrettanti capi d'accusa. 
Anche se non mi hanno mai picchiato - dirà poi - ho subito vere torture morali. Mi hanno obbligato a confessare quelli che chiamavano i miei crimini e rinnegare me stesso… per due anni e mezzo fui mandato in campagna a coltivare ortaggi. Per fortuna a quei tempi la mia salute era migliore di quella di oggi. Ma fu la mia compagna a rimanere vittima di queste persecuzioni e morì per non aver potuto avere le cure mediche necessarie, e tutto questo per mia colpa, perché avevo sulla schiena l'etichetta di controrivoluzionario

giovedì 3 dicembre 2015

AVVISO riguardo la società dominante e coloro che la contestano

Che la critica che va al di là dello spettacolo deve saper attendere;
che la società spettacolare ci mantiene in una schizofrenia sociale organizzata, offrendo fantasie utopistiche o nostalgiche senza conseguenze pratiche, o l’impegno empirico nell’attualità senza coscienza della totalità;
che quest’organizzazione dominante della confusione trova la sua espressione naturale, ed il suo rafforzamento, nel movimento stesso che mira ad opporvisi — nella forma organizzativa astratta che precede il suo contenuto o nell’associazione concreta che resta inconsapevole della sua forma;
il nostro disprezzo per quasi tutte le organizzazioni radicali esistenti, che, presentando sé stesse come leadership da seguire o come esempio di uno stile migliorato di vita da imitare, generano illusioni sulla possibilità di un cambiamento fondamentale senza il rovesciamento completo di tutte le condizioni esistenti, la negazione dell’economia mercantile e dello Stato;
che la prossima rivoluzione esige che, per la prima volta nella storia, le masse proletarizzate sviluppino la coscienza pratica della loro lotta, non mediata da capi o specialisti;
che un secondo attacco internazionale contro la società di classe, che è cominciato in modo diffuso negli anni ’50 e che ha ottenuto la sua prima vittoria decisiva nelle lotte aperte della fine degli anni ’60, sta già entrando in una nuova fase, gettando via le illusioni e le imitazioni dei fallimenti di mezzo secolo fa per iniziare a confrontarsi con i suoi veri problemi;
che i proletari devono confrontarsi con l’immensità dei loro compiti, i compiti di una rivoluzione che questa volta dovranno condurre loro stessi;
che un’organizzazione rivoluzionaria non può in alcun modo essere da sé un’alternativa alla società dominante;
che finché le masse non hanno creato le condizioni per la costruzione di una vita sociale liberata, impadronendosi e trasformando la tecnologia materiale ed rovesciando ogni autorità esterna a sé stesse, ogni realizzazione radicale positiva tende ad essere recuperata nel sistema come riforma reale o come rivoluzione spettacolare;
che la funzione dell’organizzazione rivoluzionaria come quella della teoria e della pratica rivoluzionaria in generale è fondamentalmente negativa, critica, attaccando gli ostacoli alla realizzazione delle condizioni di una creatività sociale positiva;
che se devono essere realizzate in pratica, le tendenze e le divergenze teoriche devono essere tradotte in questioni organizzative;
che la pratica della teoria comincia a casa propria.


BRONSON di Nicolas Winding Refn

"Sono nato e cresciuto con il nome di Michael Peterson, ma sono più conosciuto con il mio pseudonimo: Charlie Bronson".
Proveniente da una buona famiglia borghese, il giovane Michael Gordon Peterson ha da sempre manifestato atteggiamenti aggressivi verso l’intera società. Nel 1974 gli si spalancano le porte del carcere, dopo una piccola rapina a un ufficio postale, lasciando soli la moglie e il figlio.
Entrato in carcere per scontare una condanna di sette anni, continua la smania di essere al centro dell'attenzione. Si macchia di una serie di violenze perpetrate sui secondini, spadroneggiando all'interno del carcere, che egli definisce una camera d'albergo, e diventando l'idolo degli altri detenuti. Le autorità decidono quindi di trasferirlo in diversi penitenziari, nella speranza di calmare la sua violenza, ma ogni tentativo è vano. Viene mandato in un ospedale psichiatrico, dove gli vengono iniettate alte dosi di farmaci sedativi e qui cerca di strangolare un paziente che aveva ammesso di essere un pedofilo e quindi torna in carcere.
Dopo diversi anni torna in libertà sulla parola e va a vivere da suo zio a Luton, dove inizia ad appassionarsi alla boxe a mani nude, cambiando il proprio nome in Charles Bronson, in omaggio al famoso attore. La sua carriera di pugile finisce in fretta, dopo essersi innamorato di una donna, per la quale ruba un anello di fidanzamento; proprio per questo furto viene nuovamente arrestato. In carcere si rende nuovamente protagonista di atti di violenza nei confronti delle guardie, rimane inoltre coinvolto in una rivolta dove prende in ostaggio un bibliotecario, ingaggiando una lotta contro agenti antisommossa. Proprio per questi motivi la sua condanna viene estesa, passando oltre trent'anni della sua vita in isolamento, periodo in cui inizia a interessarsi di arte.
Il regista danese Nicolas Winding Refn realizza questo piccolo gioiello di satira narrando con un sorprendente estro visivo le peripezie tra carcere e istituti psichiatrici del famigerato criminale britannico Charlie Bronson. 
Ogni facile sociologismo, ogni giustificazionismo che riconduce la violenza dell’individuo a cause sociali e di deprivazione economica, viene fortunatamente spazzato via dal film di Refn. Peterson/Bronson nasce e cresce in una famiglia middle class assai perbene che, come usa dire, non gli fa mancare niente, non è dunque il prodotto di chissà quale triste emarginazione. Il suo primo colpo, quello alla banca con un fucile a canne mozze, lo fa semplicemente perché ne ha voglia e gli piace, per puro gusto dell’infrazione e dell’effrazione, forse anche per pura malvagità. E tutto quello che in seguito combinerà in carcere (rivolte devastanti, risse, combattimenti bestiali con detenuti e secondini) lo farà per usare la violenza come piedistallo del proprio mito, e anche per trasformare il proprio corpo, i propri muscoli, la propria animalità  in opera d’arte, in performance e esibizione dandistica, secondo un processo di estetizzazione della brutalità e della violenza, del sangue e della carne, non si sa quanto istintivo e inconsapevole, e quanto invece assai consapevole.
Michael Peterson non è un violento, è un dadaista della violenza, è il vero anarco-punk delle prigioni e degli ospedali psichiatrici: picchia tutti, si fa picchiare, attacca il prossimo suo come attaccherebbe se stesso se solo ne avesse l’occasione, sbuffa, sputa, scalcia e strepita. Insomma, è un performer. E come tale ha un pubblico, formato dalle guardie e dai prigionieri, ma anche dai comuni borghesi lettori dei tabloid che ne seguono le azioni riottose.


Gioiosa ebbrezza della sobrietà volontaria.

La società in cui viviamo è impregnata del concetto di crescita, una parola magica che viene ripetuta come un mantra da chiunque, pur in assenza della consapevolezza di ciò che essa comporti realmente come significato. Il suo opposto, decrescita, suona quindi come la peggiore eresia. Viviamo una fase molto delicata e importante della storia umana, ampiamente prevista da antropologi e studiosi in genere già a partire dagli anni '70, una fase in cui sta entrando in crisi un sistema costruito sulle risorse non rinnovabili (carbone e petrolio). Queste risorse si ritiene abbiano reso possibile uno stile di vita che diversamente sarebbe stato impensabile, e che comunque ha riguardato solo una minima parte del pianeta.
La decrescita è un'utopia concreta, un progetto di costruzione di una società di abbondanza frugale per uscire dalle aporie della società dei consumi. A differenza delle ideologie dominanti, non ci sono dogmi. Occorre seguire la via  della gioiosa ebbrezza della sobrietà volontaria.
E' davanti a noi il fallimento dell'obiettivo della felicità per tutti promessa dalla società della crescita. Occorre ora interrogarsi sul contenuto di questa promessa. Occorre ridefinire la felicità come abbondanza frugale in una società solidale. Questa è la rottura proposta dal progetto della decrescita, una rottura che presuppone che si esca dal circolo inferrnale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure dalla frustrazione crescente che questa genera, e che si compensi l'egoismo con la convivialità.
Il buon funzionamento del sistema consumistico si basa sull'insoddisfazione generalizzata. Come sanno bene i pubblicitari, le persone felici sono cattivi consumatori. Ribaltando questa logica, la società della decrescita si propone di rendere felice l'umanità attraverso l'autolimitazione, per realizzare l'abbondanza frugale.
Lo slogan dei governi in carica è sia rilancio, sia austerità, che significa rilancio per il capitale e austerità per tutti gli altri. Il problema è che si tratta di un'austerità che priva non soltanto del superfluo, ma anche del necessario. Non bisogna confondere infatti la decrescita con la crescita negativa, ovvero con la diminuzione del PIL (prodotto interno lordo). La decrescita presuppone invece una uscita dalla società dei consumi e dal PIL come indicatore.
L'attuale sistema di potere è cresciuto con l'avallo dei partiti socialdemocratici, che ora non sono più in grado di mettere in discussione la camicia di forza del neoliberalismo che loro stessi hanno contribuito a costruire negli ultimi trent'anni. L'attuale logica del sistema presuppone una sottomissione senza tentennamenti ai dogmi monetaristi.
Un programma come quello della decrescita oggi appare utopistico, ma quando toccheremo il fondo della vera crisi che è in agguato, apparirà desiderabile e realistico. La crescita appare infatti alla massa degli individui come la promessa - in realtà del tutto illusoria - che un giorno non saranno più sottoprivilegiati, e la non crescita come la loro condanna alla mediocrità senza speranza. Decrescita dunque significa scelta di una civiltà alternativa.

venerdì 27 novembre 2015

L’OROLOGIO

Nell’esatto momento in cui la rivoluzione industriale ha richiesto una maggiore sincronizzazione del lavoro, nasce l’esigenza dell’orologio. Il piccolo congegno che regola i nuovi ritmi della vita industriale rappresenta allo stesso tempo uno dei bisogni più urgenti tra quelli indotti dal capitalismo per stimolare il proprio progresso.
Così scopriamo, il senso del tempo nel suo condizionamento tecnologico e con il calcolo del tempo, il mezzo di sfruttamento del lavoro. Con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe , le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi, vengono plasmate le nuove abitudini di lavoro e viene imposta la nuova disciplina del tempo. E allorché viene imposta la nuova disciplina del tempo, gli operai iniziano a combattere non contro il tempo, ma intorno ad esso. La prima generazione di operai di fabbrica viene istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione forma le commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione sciopera per lo straordinario come tempo retribuito in modo maggiorato del 50 per cento. Gli operai hanno accettato le categorie dei propri padroni e hanno imparato a lottare all’interno di esse. Hanno appreso la lezione: il tempo è denaro.

COME STRUMENTO DEI PROLETARI COSCIENTI PER LA CRITICA DI OGNI IDEOLOGIA PRESENTE

La pratica rivoluzionaria deve spazzare via ogni residuo ideologico e mitico che il mercato culturale e il conservatorismo del PCI, dei sindacati e dei loro alleati tentano di opporre come ultimo baluardo di fronte all’inevitabilità della loro scomparsa voluta dalla feccia proletaria emergente dalla società di classe. I “contestatori” della cosiddetta sinistra extraparlamentare sono i tristi epigoni dei fallimenti storici del movimento operaio ed impiegano ogni arte magico-ideologica per mettere le briglie all’onda rivoluzionaria e assicurarsi la gestione burocratica del futuro assetto sociale.
Acheronte intende essere l’espressione del minimo di coerenza finora raggiunto dai proletari organizzati soggettivamente e il massimo di spietatezza nei confronti dei falsi rivoluzionari.
Acheronte, organo dell’Organizzazione Consiliare, intende praticare il massimo di settarismo nei confronti dei nemici - dichiarati ed occulti – del proletariato moderno e, nel contempo, il massimo di apertura dialettica nei confronti dei sinceri rivoluzionari già in marcia verso la critica pratica della società presente, per l’instaurazione del potere assoluto dei Consigli Proletari.
La moderna teoria proletaria ci distingue no solo da coloro che vaneggiano sul Partito, vecchio o nuovo,ma anche da coloro i quali, riproponendo la logora tematica dei consigli operai, contrabbandano per novità le sconfitte storiche del proletariato, non rendendosi conto che solo l’autogestione generalizzata porterà alla distruzione pratica degli operai in quanto classe separata, per la realizzazione della felicità idonea al capovolgimento della sopravvivenza socializzata.

(ACHERONTE numero due, Ciclostilato in proprio Torino, 17/3/1971.)

Lo Stato il Capitale e la Rivoluzione

La dottrina dello Stato di Bakunin è ciò che differenzia, fin dalla loro formazione, le due correnti del socialismo ottocentesco e novecentesco. Lo Stato, per definizione di ambedue le fazioni, rappresenta quell'insieme di organi polizieschi, militari, finanziari ed ecclesiastici che permettono alla classe dominante (la borghesia) di rimanere in possesso dei suoi privilegi. La differenza si presenta però nell'utilizzo dello Stato durante il periodo rivoluzionario. Per i marxisti, infatti, si sarebbe dovuta presentare una situazione in cui lo Stato sarebbe stato arma in mano al proletariato per eliminare la controrivoluzione. Solo allora, con la dissoluzione dell'apparato statale si sarebbe passati all'assenza di classi. La posizione di Bakunin (e, con lui, di tutti gli anarchici) è che lo Stato, strumento prettamente in mano alla borghesia, non può essere usato che contro il proletariato: dato che l'intera classe sfruttata non può amministrare l'infrastruttura statale, ci vorrà una classe burocratica che lo amministri. Bakunin temeva l'inevitabile formazione di una "burocrazia rossa", padrona dello Stato e nuova dominatrice. L'ugualianza e quindi la libertà, secondo il pensatore Russo, non possono esistere nella società marxista. Lo Stato va quindi abbattuto in fase rivoluzionaria. Se lo Stato è l'aspetto politico dello sfruttamento della borghesia, il Capitale ne è quello economico. Qui le differenze del marxismo sono inesistenti (basti pensare che il primo libro de Il Capitale fu tradotto in Russo proprio da Bakunin). La differenza tra la concezione marxiana e quella bakuniana del Capitale, è che per Bakunin questo non è elemento fondante dello sfruttamento. Anche se non esplicitato, nella sua opera non viene fatto riferimento alcuno alla concezione materialistica della storia (che prevede l'aspetto economico della società come basilare per l'analisi della stessa). Un aspetto importante del pensiero di Bakunin è l'azione rivoluzionaria. Bakunin ha perseguito per tutta la vita questo scopo e, in alcune parti della sua opera, sono rintracciabili le linee guida della concezione rivoluzionaria del pensatore russo. In primo luogo la rivoluzione deve essere essenzialmente popolare: il senso di questa affermazione va ricercato ancora nel contrasto con Marx. I comunisti credevano in un'avanguardia che dovesse guidare le masse popolari attraverso il cammino rivoluzionario. Bakunin invece prevedeva una società segreta che avrebbe dovuto solamente sobillare la rivolta, la quale poi si sarebbe auto-organizzata dal basso. Altra differenza con il marxismo è l'identificazione del soggetto rivoluzionario. Se Marx vedeva nel proletariato industriale spina dorsale della rivoluzione (mettendolo in contrapposizione con una classe agricola reazionaria), Bakunin credeva nell'unione tra il ceto contadino e il proletariato l'unica possibilità rivoluzionaria. Marx, in alcuni suoi scritti, non nega la possibilità che il trionfo del proletariato possa giungere senza spargimenti di sangue. Bakunin è invece categorico su questo punto: la rivoluzione, essendo spontanea e popolare, non può essere altro che violenta. 

giovedì 19 novembre 2015

L’ideale anarchico nel movimento DiY (Do It Yourself)

Ciò che caratterizza il movimento DIY è una generale assenza di interesse nell’apprendimento teorico a favore di un più acceso impegno pratico, affiancato da un vasto dibattito ed approfondimento delle tematiche direttamente legate all’attualità del proprio vivere sociale, in vista di una immediata realizzazione dell’ideale anarchico. Realizzazione che si struttura attorno ad una vita gestita in modo etico, accompagnata da radicali cambiamenti personali, attraverso occupazione e liberazione di spazi, sviluppo di strategie di comunicazione, autoproduzione e autogestione, e per mezzo di ulteriori e svariate forme di azione diretta volte alla liberazione di uomini, animali e natura. 
Centrale per il movimento DIY è l’opposizione ad ogni forma di discriminazione. Gli anarchici credono nel concetto di uguaglianza fra tutti gli individui indifferentemente dalla propria etnia, genere o orientamenti sessuali. Tale presupposto viene ritenuto fondamentale per creare una società realmente libera dove tutti possano collaborare nel fine comune di una esistenza migliore. L’anarchismo è la filosofia della libertà personale, responsabilità personale e mutuo rispetto tra tutte le persone. Crediamo in una società dove la libertà di un individuo sia limitata solo dalla libertà di qualcun altro. La forte rilevanza che viene data al concetto di libertà porta alla critica di qualsiasi forma statale compresa quella democratica. Nell’anarchia lo stato non scompare interamente, esso semplicemente si dissolve nelle persone. Le persone assorbono lo stato e assumono le sue funzioni come parte integrante della vita di tutti i giorni.
Per libera associazione il movimento DIY intende l’assunto secondo il quale nessuno potrà sentirsi libero finché non lo saremo tutti e che quindi dobbiamo unire i nostri sforzi a tal fine. Tale libertà va ricercata opponendosi a pregiudizi, ingiustizie e discriminazioni ricercando la più alta forma di libertà di espressione possibile attraverso il confronto diretto. L’anarchismo, contrariamente ad una convinzione diffusa, non è né caos, né violenza, né uno stile di vita alternativo (inteso come moda passeggera). Noi abbiamo una specifica visione di quello che l’autorità rappresenta, di come tende all’ingiustizia e di come possiamo organizzare la società senza di essa; basandola sulla libertà, eguaglianza sociale e cooperazione. L’anarchismo, quindi, non è un movimento apolitico. Al contrario la politica proviene dalle nostre vite e dalle nostre azioni, e dal modo in cui le persone si relazionano fra loro, si associano pensando autonomamente. 
Tutto questo è utopico? Certo che lo è. Ma sapete qual è il più grande timore per tutti? Che tutti i sogni, tutte le pazze idee e ispirazioni, tutti i desideri impossibili e le utopiche visioni che abbiamo possano realizzarsi, che il mondo possa accogliere i nostri desideri. Potrebbe essere vero che ogni essere umano si perde in un universo che è fondamentalmente indifferente, chiuso per sempre in una terrificante solitudine, ma non dovrebbe essere concepibile che alcune persone muoiano di fame mentre altre distruggono cibo o lasciano fattorie inutilizzate. Non dovrebbe essere possibile che donne e uomini sprechino il loro tempo lavorando per servire la vuota ingordigia di pochi uomini ricchi, giusto per sopravvivere, è una stupida e inutile tragedia, patetica e senza senso. Non è di certo utopico rivendicare di porre fine a farse come queste. 

DO THEY OWE US A LIVING? dei Crass

che vada a farsi fottere chi ragiona in maniera politica 
ci sono delle cose che voglio dire sullo stato della nazione, su come siamo trattati al giorno d'oggi
a scuola ti danno soltanto merda
fanno di tutto per farti cadere in trappola
e tu che provi, provi, provi ad uscirne e non ci riesci perché ti hanno incastrato
ecco, tu sei solo un piccolo esempio di come loro non devono essere
solo un piccolo esempio per mostrarti quello che hanno fatto a me e a te
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo
non mi vogliono più con loro perché ho gettato via quello che mi hanno offerto
mi hanno chiamato con parole dolci e gentili, ma io non sono il giocattolo di nessuno
e adesso vorrebbero fregarmi, vorrebbero vedermi morto
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo
non riuscirò mai a vivere come vogliono loro
sono riusciti a rovinare il mondo, eppure sono indebitati fino al collo
ti faranno una lobotomia per le colpe che non hai mai commesso
ti puniranno per tutto ciò che secondo loro è sbagliato
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo
non far caso a quello che dice la gente
sono tutti assuefatti alla televisione, non vogliono pensare
ti vogliono usare come bersaglio per le loro richieste e i loro consigli
e quando non vorrai ascoltarli ti diranno che sei pieno di difetti 
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo



Costituirsi in Comune

La comune è ciò che accade quando degli esseri si trovano, s’intendono e decidono di camminare insieme. La comune è forse ciò che si decide nel momento in cui si usa separarsi. È la gioia dell’incontro che sopravvive al suo strangolamento di rigore. È ciò che fa sì che si dica noi e che sia un evento. Non è strano che delle persone che si accordino formino delle comuni, ma è strano che restino separate. Perché le comuni non si moltiplicano all’infinito in ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni scuola. Le comuni accettino di essere ciò che sono laddove sono. Se possibile diventino una molteplicità di comuni che si sostituiscano alle istituzioni della società: la famiglia, la scuola, il sindacato, il club sportivo, ecc. Delle comuni che non abbiano il timore, oltre alle loro attività propriamente politiche, di organizzarsi per la sopravvivenza materiale e morale di tutti i loro membri e di tutte le difficoltà che le circondano. Delle comuni che non si definiscano – come fanno generalmente i collettivi – tramite un dentro e un fuori, ma sulla base dell’intensità dei legami al loro interno. Non tramite le persone che le compongono, ma tramite lo spirito che le anima. Una comune si forma ogni volta che qualcuno liberatosi della sua camiciola individuale si fa carico di non contare nulla se non su sé stesso e sulla comune, e a misurare la sua forza in base alla realtà. Ogni sciopero selvaggio è una comune, ogni casa occupata collettivamente  è una comune, i comitati d’azione del ’68 erano delle comuni come lo erano i villaggi di schiavi evasi negli Stati Uniti, o anche come radio Alice a Bologna nel 1977. Ogni comune vuole essere la base di se stessa. Vuole dissolvere la questione dei bisogni. Vuole spezzare ogni dipendenza economica e, al contempo, ogni soggezione politica, e degenera in milieu dal momento in cui perde il contatto con le evidenze che la fondano. Ci sono comuni di ogni sorta, che non attendono né il numero, né i mezzi, e ancor meno il momento giusto che non arriva mai, per organizzarsi.

giovedì 12 novembre 2015

Il gusto rabbioso di vivere

L’obbligo produttivo aliena la passione di creare. Il lavoro produttivo rientra nei procedimenti di mantenimento dell’ordine. Il tempo di lavoro diminuisce proporzionalmente alla crescita dell’impero del condizionamento.
In una società industriale che confonde lavoro e produttività, la necessità di produrre e sempre stata antagonista del desiderio di creare. Quale scintilla umana, ossia quale creatività possibile, può restare in un essere strappato dal sonno ogni mattina alle sei, sbattuto sui treni suburbani, assordato dal fracasso delle macchine, torchiato, spremuto dalle cadenze, dai gesti privati di senso, dal controllo statistico, e rigettato alla fine della giornata nelle sale di stazione, cattedrali di partenza per l’inferno delle settimane e l’infimo paradiso dei week-end, quando la folla si comunica nella fatica e nell’abbruttimento?
Dall’adolescenza all’età della pensione, i cicli di ventiquattr’ore si susseguono con il loro uniforme macinare del vetro spezzato: incrinatura del ritmo congelato, incrinatura del tempo-che-è-denaro, incrinatura della sottomissione ai capi, incrinatura della noia, incrinatura della fatica. Dalla forza viva dilaniata brutalmente alla lacerazione sempre aperta della vecchiaia, la vita barcolla da ogni parte sotto i colpi del lavoro forzato. Mai una civiltà ha raggiunto un tale disprezzo della vita; allevata nel disgusto, mai una generazione ha provato fino a questo punto il gusto rabbioso di vivere. Coloro che si assassina lentamente nei macelli meccanizzati del lavoro sono gli stessi che si trovano a discutere, cantare, bere, ballare, fare l’amore, tenere la strada, prendere le armi, inventare una poesia nuova. Già si costituisce il fronte contro il lavoro forzato, già i gesti di rifiuto modellano la coscienza futura. Ogni appello alla produttività, nelle condizioni volute dal capitalismo e dall’economia sovietizzata, è un appello alla schiavitù.

NEL SONNO di Wistawa Szymborska

Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all’indirizzo vecchio.

Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.

Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti.

Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.

Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.

Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell’oblio.

Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.

Spazzavo via l’aria
e l’erba dell’infanzia.

Cercavo di fare in tempo
Prima del crepuscolo del secolo trascorso,
dell’ora fatale e del silenzio.

Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.

Al risveglio
ho guardato l’orologio.
Il sogno era durato due minuti e mezzo.

Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacché si imbatte
nelle teste addormentate.