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giovedì 2 ottobre 2014

PORCILE di Pier Paolo Pasolini


"Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia".

Due lapidi sulla disubbidienza vengono lette prima delle immagini iniziali, sul rumore di un'eruzione lavica.
Due eventi paralleli, l’uno ambientato in un’epoca arcaica, l’altro contemporaneo, si confrontano in montaggio parallelo dandoci un’allegoria del potere. Da una parte, in un luogo desertico, un giovane, prima da solo, poi con altri compagni aggredisce viandanti e soldati e si nutre delle loro carni. Catturato, le autorità del luogo lo condannano a morte: viene abbandonato legato a terre, pasto per le belve. Dall’altra, Julian, figlio di un ricco industriale tedesco dei nostri giorni, vive oppresso da inibizioni che gli vengono imposte dalla cultura dominante. Egli non sa prendere una netta posizione nei confronti dei genitori e della società: non si ribella e non si adegua alle norme. Dedito alla zoorastia, viene sbranato dai maiali del porcile paterno.
In pieno clima sessantottino, Pasolini scrive e dirige un film come Porcile, in cui il realismo della critica al neo-capitalismo post-nazista tedesco, si unisce dialetticamente all’acuta riflessione su un passato che “non passa mai”, su una dimensione solo apparentemente metafisica e confinata nell’oblio della storia, eppure così vicina alla nostra quotidianità.
"Porcile" è l'opera di Pasolini che meglio esprime il suo pensiero e quindi il suo disagio. Nella sua critica alla morale comune, al bigottismo marciante che pervade il mondo, Pasolini distrugge i tempi e le destinazioni rendendo il suo pensiero atemporale e generalista, buono per tutto e tutti. E' la tolleranza che marca le differenze, che sottolinea la non accettazione, è la compassione e i compassionevoli a rendere impossibile qualsiasi reale slancio empatico. Il tema che pervade "Porcile" è l'impossibilità a vivere secondo le proprie coordinate, secondo i propri istinti. L'impossibilità a preservare il me medesimo cannibale dal mondo cannibale.
"Porcile" non fa prigionieri. Condanna tutti, dal primo all'ultimo, dai giovani anti-comunisti che andavano a pisciare sul muro di Berlino in sfregio di chi in quel muro viveva ai genitori che sempre vorrebbero una proiezione di se stessi nella propria prole. Non c'è redenzione, non c'è possibilità di salvezza in questo mondo soggiogato in modo, oramai, antropologico. Non c'è speranza in questo porcile dove tutti mangiano tutto, dove il solo deve essere il tutto.
Una volta messa in corto circuito l'identità borghese per mezzo dei suoi stessi strumenti, Pasolini attacca il vincolo sociale, quel potere assoluto e astratto dagli individui che lo esercitano il quale non consente altro che la piena, incondizionata obbedienza da parte di ogni membro della sua presunta "società". 
Porcile è un film visionario, che strumentalizza l'orrore per giungere alla positività. Superata l'impasse di Edipo, Pasolini giunge a dire che il trasgredire non basta, che anche la trasgressione, se non è gesto cosciente e rivolto agli altri, può essere annullata dal silenzio, può passare inosservata, può esaurirsi nel narcisismo del "gesto". 
Cosa resta, all'uomo sociale, della sua libertà? 
Intanto, la libertà di denunciare l'illibertà, e non semplicemente di rifiutarla. Di metterla in contraddizione attraverso la propria presunta liberalità, di costringerla a rifiutare l'Altro, svelandosi per quello che è: diventare indigeribili all'enorme ventre sociale borghese.
Porcile mostra dunque come l’unica via di fuga lasciata alle nuove generazioni sia quella della violenza, una violenza primitiva e selvaggia che verrà inevitabilmente condannata dalla società, ma che non viene qui condannata dal regista, perché essa rappresenta le forme più autentiche della vita; non a caso al cannibale se ne uniranno altri, formando un vero e proprio nucleo sociale (come a dire che di violenza e di comunità è fatta la storia umana).




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