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giovedì 28 agosto 2014

L’educazione è una forma di potere


L’educazione è una forma di potere. E teoricamente, affermare che l’educazione ha a che fare con il potere o che essa stessa si costituisce come una pratica di potere non dovrebbe sconvolgere più di tanto chi sia abituato a riflettere su problematiche pedagogiche. Eppure la dimensione del potere sembra essere la più rimossa da parte degli educatori; essi sembrano sempre sottintendere una loro non-partecipazione nei confronti di un potere che si situa sempre “altrove”: nelle mani di Presidi, Provveditori, Ministri, nelle pieghe della burocrazia, sulle scrivanie di coloro che vergano i programmi di studio. Questa sorta di repulsione ad affrontare la questione del “mio” potere, del potere che è in me e che è “me”, del potere che transita attraverso le mie pratiche quotidiane, del potere dell’educazione in quanto tale rende conto, probabilmente, della radicalità della questione stessa che proprio dal versante educativo può essere letta e studiata in modo critico e demistificatorio. Questo è il presupposto di ogni educazione libertaria: porre al centro delle sue teorie e delle sue pratiche la questione del potere e dello smascheramento del potere. Anche e soprattutto del potere dell’educatore. Leggere nelle pratiche educative delle pratiche di potere e, ancor più radicalmente, studiare la presenza e la costituzione di un potere che sia essenzialmente educativo, le cui strutture siano per essenza omologhe a quelle dell’educazione, significa contribuire allo smascheramento della cosiddetta “bontà” originaria dell’educazione. Occorre allora smascherare i tratti di un potere eminentemente educativo. Saremo di fronte allora a un potere che non risiede sempre in un Altrove, un potere che forse non si “prende” o si “aliena” o si “trasmette” ma si esercita, non solo da parte dei soggetti ma anche attraverso i soggetti medesimi; un potere di assoggettamento che proprio in quanto prevede il soggetto come telos della sua applicazione (e non semplicemente come sostrato su cui applicarsi o dato naturale da pervertire e condizionare) diventa anima segreta delle pratiche educative; di tutte, ovviamente, anche di quelle che si vogliono come resistenziali nei confronti delle attuali configurazioni del dominio.

COSCIENZA DISTRUTTIVA Declino

Vedo uomini abbattuti nello stupore
Sotto le luci di una vita del centro
Cammino nel vuoto e nel gelo della gente
L’abitudine del presente placa ogni rumore,
ma è la nostra esistenza che passa inosservata
non voglio più subire nel silenzio.
Una massa di automi in continuo movimento
È questo il presente per cui avete lottato?
Tutti i vostri discorsi sulla morale
Distrutti dai vostri miti perbenisti,
avete imparato a tacere e a dire sempre si
convinti che sia l’unica strada per la salvezza
quale salvezza? Quale domani?
Questa realtà mi impone la sofferenza.
Sempre minacce, ordini e restrizioni
È questa la società che ci avete costruito?

Io sono innocente! di Bartolomeo Vanzetti

Cari amici, sorella carissima,
io sono innocente! Io posso tenere alta la fronte! La mia coscienza è pulita! Muoio come ho vissuto, lottando per la Libertà e per la Giustizia. Oh, che io possa dire a tutti gli uomini che non è per quel delitto mostruoso che io sono condannato! Nessun verdetto di morte, nessun giudice Thayer, nessun governatore Fuller, nessun Stato reazionario come quello del Massachusetts possono trasformare un innocente in un assassino.
Il mio cuore è traboccante d’amore per tutti quelli che mi sono cari. In che modo dir loro: addio? Cari i miei amici; cari i miei difensori! A voi, tutto l’affetto del mio povero cuore, a voi tutta la gratitudine di un soldato caduto per la Libertà. Voi avete lottato con fede e coraggio. Il fallimento non vi è imputabile. Non disperate. Continuate la battaglia intrapresa per la libertà e l’indipendenza dell’uomo.
Mia cara sorella, che gioia il rivederti e intendere le tue dolci parole d’amore e d’incoraggiamento.
Ma io credo che sia stato uno sbaglio terribile quello di averti fatto attraversare l’oceano per vedermi qui. Tu non puoi capire quanto io soffra di vederti assistere alla mia agonia e di vederti costretta a vivere le sofferenze che io devo affrontare.
Quando ti sarai riposata e quando avrai ritrovata la forza necessaria, ritorna in Italia, presso i nostri cari. A questi cari, come ai nostri buoni e fedeli amici, tu porterai il mio messaggio di amore e riconoscenza.
Che importa se nessun raggio di sole, se nessun lembo di cielo penetra mai nelle prigioni costruite dagli uomini per gli uomini?
Io so che non ho sofferto invano. Ecco perché porto la mia croce senza rimpianto.
Presto i fratelli non si batteranno con i loro fratelli; i bimbi non saranno più privati del sole e allontanati dai campi verdeggianti; non è più lontano il giorno nel quale vi sarà un pane per ogni bocca, un letto per ogni testa, della felicità per ogni cuore.
E questo sarà il trionfo della vostra azione e della mia, o miei compagni e amici.
Affettuosamente 

(Il 23 agosto 1927 gli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono assassinati dalla giustizia americana )  

giovedì 21 agosto 2014

LA GELOSIA

La gelosia è uno degli strumenti con cui si costruisce la prigione.
La gelosia nasce soprattutto dall’umiliazione che ciascuno di noi ha subito nei primi anni della propria vita quando è stato messo in ginocchio, piangente, di fronte a una qualsiasi immagine dell’autorità. Questa stessa immagine-fantasma è l’antagonista occulto che ci accompagna, angelo custode all’aspetto di Frankestein, pronto a rinnovare la sua impresa spezzandoci nuovamente nell’umiliazione; ed ha come alleato la parte di noi che, per avere già acconsentito, sa di poter cedere nuovamente. In questo senso la vera paura celata dalla gelosia è quella del tradimento di noi stessi, non già di quello altrui. Ancora, essa nasce dall’immagine culturale,  patriarcale e cristiana in particolare, della donna come proprietà da difendere e della sua (per il tutto una parte) vulva come ricettacolo passivo. In questa logica noi raffiguriamo noi stessi come i soli autorizzati allo stupro: dagli altri temiamo lo stesso stupro che noi immaginiamo di poter compiere legalmente.
Così ancora una volta si umiliano il corpo e l’amore, e si rinnega prima di tutto in sé e poi negli altri il fuoco che accende di vita il corpo e gli dona tutta la grazia della divinità.
Nella visione pornografica cristiana dello stupro e del sesso, inteso come peccato e cosa immonda, sta la chiave della nostra avarizia prima di tutto nei nostri confronti e poi in quelli degli altri.
Insomma, la gelosia umilia chi è geloso doppiamente: prima di tutto perché lo inginocchia di fronte ad un fantasma del passato, ripetendo così una esperienza traumatica infantile; e poi perché avvilisce l’oggetto d’amore così che, tradito l’amore, si trasformerà in oggetto di disprezzo.

Horst Fantazzini parte seconda

Una volta rapinai una banca in provincia di Bergamo, sulla strada che da Bergamo scende ad Iseo. Il paese era Tagliuno. Rapinata la banca, scappai verso Iseo. Prima d’entrare in Iseo lasciai la macchina in un garage, dicendo di cambiare l’olio e di lavarla, affermando che sarei passato a riprenderla dopo alcune ore. Poco lontano c’era una fermata dell’autobus. Presi l’autobus e rifeci a ritroso la strada fatta per scappare. Arrivati a Tagliuno, davanti alla banca che avevo rapinato quindici minuti prima, c’erano i carabinieri e una gran folla. La gente sull’autobus faceva commenti pesanti e una signora accanto a me disse che ci voleva la pena di morte per chi rapinava banche … ed io le davo ragione. Arrivato alla stazione degli autobus di Bergamo salii su un pullman diretto a Milano. In quel periodo autobus e pullman di linea non venivano fermati ai posti di blocco, a meno che non si fosse trattato di fatti gravissimi. Ma perché “rapinatore gentile”? Perché non urlavo e mi rivolgevo agli impiegati fermamente ma con gentilezza, spesso scherzando per sdrammatizzare. Perché se nella banca c’era gente aspettavo pazientemente il mio turno, facendo finta di controllare delle cifre su di un foglio, finché la banca si svuotava. Allora mi avvicinavo alla cassa poggiavo la mia borsa sul tavolo e, al posto di una cambiale da pagare tiravo fuori la pistola e, tranquillamente dicevo all’impiegato: “Stai assolutamente calmo e non ti succederà nulla. Prendi tutti i soldi che hai in cassa e poggiali sul banco”. Gli altri impiegati non si accorgevano subito di ciò che succedeva. Quando realizzavano che c’era una rapina, alzavano subito le mani, allora io gli dicevo di poggiare le mani sul tavolo, di stare tranquilli, di comportarsi normalmente. Se per caso fosse entrato un cliente mentre la rapina era in corso, cosa che è successa molte volte, non si sarebbe accorto che era in corso una rapina. Poi quando arrivava vicino a me, gli mostravo la pistola e anche a lui dicevo di stare tranquillo e lo facevo andare in un angolo lontano dalla porta d’uscita. Quando mi avevano consegnato i soldi, dicevo a tutti di stendersi per terra e di non alzarsi per cinque minuti, che c’era un mio complice, fuori, che sarebbe intervenuto se si fossero alzati prima dei cinque minuti e lui non era così tranquillo come me … Solitamente, aspettavano realmente i cinque minuti. A volte entrava un cliente e vedendo gli impiegati per terra, era lui a dare l’allarme. Una volta, durante una rapina, un’impiegata ebbe un lieve malore per la paura. Il giorno dopo sul giornale lessi le sue generalità e tramite la Fleurop le mandai un mazzo di fiori scusandomi per la paura che le avevo causato. Ecco, così nacque il “Rapinatore gentile”. Ma la mia gentilezza è innata, non affettata. Diciamo che sono gentile per natura, fa parte del mio carattere e quindi traspare anche in situazioni anomale nelle quali, normalmente, la gentilezza non dovrebbe avere diritto di cittadinanza …

(Horst Fantazzini 1998)

L’affinità come organizzazione

Siamo anarchici che desiderano una libertà senza limiti. Lottiamo per la liberazione, per un rapporto decentrato e non mediato con il nostro ambiente e con coloro che amiamo e con cui abbiamo affinità. I modelli organizzativi ci offrono solo altra burocrazia, controllo e alienazione, uguali a quelli che riceviamo già dall’organizzazione attuale.
Occasionalmente può esistere una buona intenzione, ma il modello organizzativo deriva da una mentalità intrinsecamente paternalistica e diffidente, che sembra in contraddizione con l’anarchia. I veri rapporti di affinità nascono da una profonda comprensione reciproca nell’ambito di relazioni intime basate sui bisogni della vita quotidiana, non di relazioni basate su organizzazioni, ideologie, idee astratte. Tipicamente, il modello organizzativo reprime i bisogni e i desideri dell’individuo per “ il bene della collettività”, nel tentativo di uniformare sia la resistenza che l’immaginazione. Dai partiti alle piattaforme e alle federazioni, sembra che con l’aumentare della scala dei progetti diminuiscano il significato e l’importanza che essi hanno per la vita di ciascuno.
 Le organizzazioni sono mezzi per stabilizzare la creatività, controllare il dissenso e indebolire le tangenti controrivoluzionarie (principalmente determinate dalla leadership o dai quadri d’élite). In genere insistono sull’aspetto quantitativo, anziché su quello qualitativo, e offrono poco spazio al pensiero o all’azione indipendente. Le associazioni informali, basate sull’affinità, tendono a ridurre al minimo l’alienazione delle decisioni e della loro attuazione e la mediazione fra i nostri desideri e le nostre azioni.

giovedì 14 agosto 2014

NOI SIAMO PARTITI DAL NULLA

Noi siamo partiti dal nulla per giungere alla miseria.
SI’
La gratuità del gesto, l’organizzazione spontanea della produzione nelle mani dei produttori, la realtà della necessità immediata, l’organizzazione passionale e la generosità complice, sono la fraternizzazione cosciente di ciò che costruiamo: il potere dei consigli operai. La lealtà teorica deve trovare la sua pratica: la coscienza della realtà.
COSI’
Cambiare la vita, saper morire, praticare la festa fourierista, vivere il quotidiano, trarre speranza dalla disperazione, significa sapere il 1905, CRONSTADT, LA CATALOGNA, BUDAPEST 1956 …
ANCHE
Distruggere il potere senza prenderlo. Distruggere per essere l’altro e sé stessi.
LA POESIA VISSUTA NON E’ NULLA DI DIVERSO.
La libertà, grazie al rovesciamento dei rapporti, trova il suo momento di costruzione. Così non dir più: “Scusi, signor agente” ma “Crepa … porco” implica:
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL VISSUTO
La coscienza è la sola a non cadere nella trappola del costruttivismo. È, per ora, la sola poesia delle piazze in cammino. Il programma minimo è l’ATTO DI DISTRUZIONE: è, per eccellenza, l’atto politico. Per esso non esiste controllo, non c’è regola. La rivoluzione non può essere che quotidiana, se si vuol lottare contro il fascino del potere. Il desiderio di dominio resta ancora la legge del momento, la mentalità di schiavo affrancato, la vertigine d’obbedienza per essere obbedito, la mistica delle istituzioni e la religione dell’ordine. Estirpare il fascismo e far morire DIO passa attraverso il CAOS.
La nostra vita è in questione, non fermiamoci per paura di perderla. I lupi sono in agguato. La vita è breve. O siamo tutti signori o non siamo nulla. A questa condizione il lavoro diventa una grande risata, o TUTTO.
Io ci amo tutti.
Viva il potere dei consigli operai.
Abbasso l’autogestione Yugoslava.
UN COMPAGNO YUGOSLAVO CHE LA SA LUNGA 

(Volantino distribuito a Parigi e altrove nel maggio 1968)    

Horst Fantazzini parte prima

Io ho un carattere socievole e mi piace ridere e scherzare. Odio la volgarità, la prepotenza e l’ipocrisia. Dopo tanti anni di galera, ho acquisito la tendenza a rinchiudermi in me stesso per coltivare i miei sogni, i miei progetti, le mie speranze. Insomma, sono diventato un po’ “orso”, ma appena ho a che fare con persone vive e leali, mi apro completamente. Non è facile sopravvivere in queste paludi d’opportunismo e rassegnazione riuscendo a salvaguardare la propria personalità. Ci si riesce a condizione d’ergere steccati immaginari tra sé e gli altri, tra sé e l’ambiente.?Io credo d’essere riuscito a mantenermi integro e ci sono riuscito perché ho avuto la fortuna di vivere rapporti intensissimi con compagni e compagne che, da fuori, non mi hanno mai fatto mancare la loro amicizia, il loro affetto, il loro amore. Ci sono riuscito perché da prigioniero sono sempre riuscito a difendere alcuni spazi inviolabili quali la dignità, l’orgoglio e il rispetto in me stesso.?La difesa quasi trentennale della propria integrità è stata la lotta più dura e silenziosa. Il resto, i fatti di cronaca, le lotte, le evasioni riuscite e quelle tentate, sono episodi importanti ma non determinanti all’interno d’un percorso esistenziale complessivo … Quando qualche secolo fa iniziai a rapinare le mie prime banche mi trovai subito appiccicato addosso i soprannomi “Il rapinatore gentile”, “Il rapinatore solitario” e “La primula rossa”. “Rapinatore solitario” perché le banche le rapinavo da solo. “Primula rossa” per l’inventiva (scarsa) di un giornalista che aveva intervistato mio padre durante la mia latitanza. Ma perché “rapinatore gentile”??Ecco, la spiegazione di questo e il racconto di alcuni particolari inerenti al mio “stile” di rapinare le banche …?Intanto, perché ad un certo momento mi sono messo a rapinare banche e perché solo banche? E perché le rapinavo da solo??In realtà, dopo aver letto le vicende della “Banda Bonnot” e anche Brecht (“È più criminale fondare una banca che scassinarla”), parlai con alcuni compagni anarchici del mio progetto di rapinare (allora non si diceva ancora “espropriare”, al ’68 mancavano alcuni anni …) banche per rivitalizzare economicamente la stampa anarchica. Fui quasi preso per un pazzo. Se non fossi stato il figlio di Libero, m’avrebbero persino preso per un provocatore.?Allora, mi misi a rapinare banche da solo.?Come le rapinavo le banche? Prima studiavo attentamente le strade del posto. Cercavo sempre le banche periferiche o situate in piccole città. Cercavo di capire dove ci sarebbero stati i primi posti di blocco e cercavo stradine periferiche, deviazioni, per non dover passare in quei punti “caldi”. Se possibile, dopo pochi km abbandonavo la macchina in un posto dove non l’avrebbero trovata subito e prendevo un pullman oppure un autobus e mi portavo fuori dalla “zona calda”.

(Horst Fantazzini, 1998)

SOLIDARIETÀ CON LA MIA TERRA

Sono il residuo di un genocidio consumato dallo stesso nemico che nel corso dei secoli ha distrutto quasi del tutto la mia terra. Nelle vesti di multinazionali dell’atomo, dello sfruttamento idroelettrico, turistico, del militarismo e dei suoi poligoni, con l’inquinamento radioattivo, chimico, da carburazione industriale e metropolitana, l’ipersfuttamento boschivo e agricolo è responsabile storico della rapina della mia terra e del mio lavoro. E’ nella presa di coscienza del mio essere sfruttato, schiavo, ed espropriato, che semplicemente sono andato sino in fondo nel tentativo della mia liberazione e nel tentativo di contribuire con tutto me stesso alla liberazione della mia terra che ha ospitato e nutrito i miei avi. 
La mia solidale coscienza globale. Coscienza della globalità del nemico e della sua guerra di sfruttamento e sterminio totale, non poteva che dirmi che la lotta contro di lui è un dovere per e su qualsiasi terra che mi ospita. Solo così riaffermo, comunque e ovunque la mia quotidiana e umana dignità. Responsabile, solidale, e comune con le mie sorelle e fratelli di ogni razza e lingua, oppresse e oppressi, sfruttate e sfruttati; solo così affermo la mia solidarietà con coloro che lottano, in qualsiasi modo lottino, solo così affermo la mia responsabilità, l’amore naturale e scontato per i nostri figli e per tutti i viventi di questo meraviglioso pianeta.

venerdì 8 agosto 2014

L’UTOPIA ANARCHICA

Al mondo dei bisogni creato dal capitale è necessario opporre il mondo nuovo che ci portiamo dentro. Questo mondo si fonda sulla praticabilità realizzativa dei nostri più propri desideri. Al giorno d’oggi pensiamo che non sia più valido dire semplicisticamente che sarà un dato modo di produzione a definire concretamente una società anarco-comunista. L ’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Vogliamo essere artisti e non semplici manovali-artigiani. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa, in una parola, in attività artistica. Noi vogliamo realizzare la vita come arte, così non avremo più alcuna necessità di recarci ai musei, al cinema, al teatro, ecc. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.
Una società anarchica è, di per se stessa, comunista, essa sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di potere seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.
E’ logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. Nella visione anarchica rivoluzionaria, il comunismo appare epurato da tutti i suoi più odiosi aspetti religioso-autoritari e viene quindi valorizzato criticamente nei suoi aspetti positivi, in quanto non mutila ne appiattisce la personalità dei singoli che comunitariamente lo mettono in pratica, ma, al contrario, il loro associarsi dà modo di esaltare qualitativamente le singole diversità.
In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.
La vita, nel suo movimento, non ha alcun fine preordinato, siamo noi a riempirla di senso nel momento stesso in cui cerchiamo di viverla compiutamente.

STERMINATE GRUPPO ZERO di Claude Chabrol

Un giovane anarchico spagnolo, che si fa chiamare Bonaventura Diaz, organizza ed attua, con quattro compagni di fede anarchica (tre uomini e una donna) il rapimento dell’ambasciatore americano a Parigi, Richard Point-Dexter, per il cui riscatto il gruppo chiede dieci milioni di dollari, destinati a finanziare la rivoluzione. Il commando, del quale avrebbe dovuto far parte anche il professor di filosofia Marcel Truffais, tiratosi indietro alla vigilia del rapimento, si nasconde con l’ambasciatore in una casa di campagna. Il sequestro del diplomatico è avvenuto in una casa di appuntamenti di lusso sorvegliata dal controspionaggio con telecamere nascoste. Il sequestro del diplomatico è stato quindi filmato: grazie alla pellicola il commissario che guida le indagini dà un volto e un nome ai rapitori, mentre il taccuino trovato in casa di Marcel gli fa scoprire il loro rifugio. Con l’avallo del sottosegretario agli Interni e del ministro, il poliziotto, per cancellare l’aureola romantica che l’opinione pubblica conferisce ai guerriglieri, fa in modo che costoro uccidano l’ostaggio e siano a loro volta ammazzati. Si salva dal massacro il solo Diaz, al quale il commissario, che i suoi superiori hanno abbandonato, tende un tranello in casa del filosofo. Prima di morire l’anarchico ammazza il poliziotto, lasciando a Marcel il compito di svelare all’opinione pubblica la verità su quanto è accaduto.
 Il film si concentra sull’azione, tracciando in immagini il vertiginoso procedere di eventi nei giorni prima, durante e dopo il rapimento dell’ambasciatore americano a Parigi, approfittando di una sua sosta in una lussuosa casa di appuntamenti, e nasconderlo in un casolare di campagna, per scuotere le coscienze e uscire dall’interminabile stallo delle discussioni teoriche e delle divisioni tra movimenti antagonisti. Denuncia l’azione dei corpi speciali di polizia, dei servizi segreti, di una burocrazia e di un potere politico che non esitano a servirsi di un commissario psicopatico per poi liquidarlo a fine servizio, quando la violenza delle misure repressive impressiona l’opinione pubblica e turba gli equilibri nazionali e internazionali.
“Presi singolarmente, gli anarchici del gruppo NADA non hanno niente di eccezionale, vivono le loro giornate come meglio possono, chi insegnando filosofia, chi lavorando in un bistrot, chi rincorrendo i propri sogni.
Se si trovano insieme è perché perseguono un unico obiettivo: dare vita a un processo rivoluzionario in grado di spazzare dalla faccia della terra ogni ipocrisia politica.
C’è un’unica strada che sembra in grado di condurre dritta sull’obiettivo, si chiama rivoluzione e, se non ci si fa spaventare dall’altisonanza del nome, può rivelarsi una strada del tutto percorribile.”
Il film è tratto dal romanzo di Jean-Patrick-Manchette ” NADA”.



Sovvertimento dei rapporti sociali dominanti

Molti esperimenti in cui si tenti di svincolarsi, che rivendichino o meno la decrescita, sono encomiabili perché in tempi oscuri hanno la forza dell’esempio a condizione, questo sì, di presentarsi per quel che sono, modi di sopravvivenza più tollerabili, per riuscire a riprendere fiato se possibile, ma niente affatto panacee. Sono un inizio, dato che oggi la secessione è la condizione necessaria della libertà. Tuttavia, questa non ha valore se non come frutto di un conflitto, cioè unita al sovvertimento dei rapporti sociali dominanti. Costituendo una specie di guerriglia autonoma. Il rapporto con le lotte sociali e la pratica dell’azione diretta è quel che conferisce il carattere autonomo allo spazio, non la sua esistenza in sé. L’occupazione pacifica di fabbriche e territori abbandonati dal capitale talvolta potrà essere lodevole, però non fonda una nuova società. Gli spazi di libertà isolati, per quanto paiano molto meritori, non sono barriere che impediscono la schiavitù. Non sono fini a sé stessi, come non lo erano i sindacati in altri periodi storici, e difficilmente possono essere strumenti per la riorganizzazione della società emancipata. Durante gli anni trenta venne messo in discussione questo ruolo, attribuito allora ai sindacati unici, perché si supponeva fosse riservato alla collettività e ai municipi liberi. Il dibattito è degno di essere ricordato, senza dimenticare che nell’ora della verità l’autonomia di ciascuna istituzione rivoluzionaria, sindacati compresi, fu assicurata dalle milizie e dai gruppi di difesa. Oggi però le cose sono diverse: l’emancipazione non nascerà dall’appropriazione dei mezzi di produzione ma dal loro smantellamento. Le zone relativamente segregate oggigiorno esistono proprio perché sono fragili, perché non costituiscono una minaccia, non perché sono una forza. E soprattutto perché non oltrepassano i limiti dell’ordine: in Francia, il contributo principale del milione di neo-rurali non è stato altro che «votare a sinistra». In fin dei conti anche loro sono contribuenti. Gli isolotti auto-amministrati non trasformano il mondo. La lotta sì. Non siamo all’epoca dei falansteri o delle Icaria. La democrazia diretta e l’autogoverno devono essere risposte sociali, opera di un movimento nato dalla frattura, dall’esacerbarsi degli antagonismi sociali, non dal volontarismo campagnolo, e non devono prodursi alla periferia della società, lontano dal chiasso mondano, ma al suo centro. Lo spazio sarà effettivamente liberato quando un movimento sociale cosciente lo strapperà al potere del mercato e dello Stato, creando al suo interno delle contro-istituzioni. L’uscita dal capitalismo sarà opera di un’offensiva di massa o non sarà. Il nuovo ordine sociale giusto ed egualitario nascerà dalle rovine di quello vecchio, dato che non si può cambiare un sistema senza prima averlo distrutto.