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giovedì 20 febbraio 2014

Contro il castigo

Il castigo non dissuade dal crimine, lo stimola. Dà inizio a un’asta competitiva in cui il colpevole esercita sugli altri una giustizia che gli altri eserciteranno su di lui. Il criminale non agisce forse come un giudice implacabile? Condanna, punisce, grazia o elimina la sua vittima senza derogare alla legge di una giustizia universale. Il suo delitto lo impiega e sa che ne pagherà la tassa se viene arrestato.
Tale è la logica inevitabile degli scambi, essa si riproduce senza fine. Cionondimeno non è una legge umana, è soltanto la legge di un’economia in cui tutto si paga.
Condannare la violenza, lo stupro, l’attentato e fare appello ad una legalità che uccide, imprigiona, stupra e tormenta, vuol dire che entrare nella disumanità di un mercato chiamato giustizia, vuol dire rassegnarsi, con un segreto sentimento di vendetta, a comportarsi come un giudice ed un criminale.
Per quanto possiamo trovarci costretti a lavorare per sopravvivere e, nella stessa occorrenza, a reagire violentemente per difendersi – perché non è questione di tollerare alcuna minaccia -, non ci farà assentire né alla virtù del lavoro né alla fondatezza del taglione. Una civiltà che ha la pretesa di creare la sua umanità si rinnega se non si adopera con ogni mezzo per spezzare il ciclo del crimine e del castigo, per farla finita con la giustizia.
Seppure possiamo essere trascinati, a certe ore del giorno e della notte, in un gioco le cui regole appartengono all’universalità mercantile, non abbiamo scelto di entrarvi, non ci preoccupiamo di vincere o perdere, non abbiamo altra convenienza che di uscirne. Colui che, raccogliendo secondo il caso i piaceri, evita i sentieri battuti dell’autopunizione e dei suoi esorcismi, se ne frega di giudicare e di essere giudicato.  

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