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giovedì 27 giugno 2013

Non siamo più cittadini

Come diceva Jean Jacques Rousseau: “Una città non sono edifici, la città è fatta di cittadini”, e quello che abbiamo perduto oggi non sono solo le città: abbiamo perso il nostro senso di cittadinanza. Oggi siamo contribuenti, consumatori, siamo sudditi obbedienti di tremende ed enormi burocrazie. Ci dicono tutto, ci dicono come vestirci, che cosa mangiare, come ascoltare, come camminare, tutto quanto, non siamo più cittadini, cioè, non possiamo partecipare se non il giorno delle elezioni. Possiamo prendere l’auto e guidare, possiamo andare in vacanza, ma dobbiamo stare fuori dalla gestione delle nostre città. Abbiamo perduto le nostre città, perché abbiamo perso la nostra cittadinanza.
Oggi abbiamo tecnici dell’ambiente e politici che pensano come fare gli edifici e come la gente dovrebbe vivere, si calcola e si progetta una bellissima città, ma il 99% delle volte questa è spazzatura, perché i pianificatori urbani di oggi sono persone coinvolte nel mercato immobiliare, nello sviluppo, sono grandi società, sono persone che si fanno dei soldi, che vogliono dare il proprio nome a tutta la città. Questa è la progettazione urbanistica oggi. Tutti questi personaggi hanno una soluzione, vogliono mettere una grossa cupola intorno alle città, così si può continuare a distruggere il mondo, a produrre e ad inquinare, mentre la gente vive sotto una grossa cupola di aria condizionata. Vivremo in un ambiente sanitario e completamente controllato dai pianificatori e dai tecnici importati in tutto il mondo. Avremo tutto salvo la libertà. Aveva ragione Rousseau quando diceva che una città è fatta in primo luogo e solo da cittadini, per cui se viene tolta la cittadinanza alla gente, questa non è più tale. Diventa una serie di elementi statistici per un’analista di marketing, per i raccoglitori di tasse, diventa meno umana. Le persone non riescono a realizzare il loro potenziale, non riescono sentirsi comunità e quindi diventano passive, accettano, imparano a sopravvivere prima in una cupola e poi in una gabbia. Ci stanno mettendo in una gabbia tutti i giorni e, nella misura in cui le persone non sono nel processo di progettazione delle proprie città, nella stessa misura vi sono lo Stato e le immobiliari.
L’unica soluzione è lottare per l’autogestione generalizzata cioè l’organizzazione sociale del potere riconosciuto ad ognuno sulla propria vita quotidiana e esercitato direttamente, sia dagli individui stessi, sia dalle assemblee di autogestione di quartiere, di strada e di casa.

SOGNI A DOPPIE VIE I Refuse It!

Morti in vetrina anonimi
sogni a doppie vie inesauribili
monitor accesi sugli incubi del giorno
tormenti passeggeri attimi di smarrimento
fuochi fatui guardano oltre le linee
fissando lo sguardo sulle rovine
Morti in vetrina anonimi
sogni a doppie vie inesauribili
monitor accesi sugli incubi del giorno
tormenti passeggeri attimi di smarrimento
Doppie vie inesauribili doppie vie inesauribili
Doppie vie inesauribili doppie vie inesauribili
Morti in vetrina anonimi
sogni a doppie vie inesauribili
monitor accesi sugli incubi del giorno
tormenti passeggeri attimi di smarrimento
Doppie vie inesauribili doppie vie inesauribili
Doppie vie inesauribili doppie vie inesauribili
Doppie vie che durante il giorno lasciano impronte
violano la fascia di controllo lasciano impronte
distruggono il pensiero più profondo lasciano impronte
conducono ad un passo dal tracollo lasciano impronte
Ho paura … impronte
Impronte.

Piattaforma per una rivoluzione culturale

1
La questione della cultura cioè, in ultima analisi, della sua integrazione nella vita quotidiana, è sospesa alla necessità del rovesciamento della società attuale. Fare la rivoluzione sociale e politica non è sufficiente se questa trasformazione non è accompagnata nella cultura da un identico rivolgimento qualitativo che conduca la società socialista, creata dalla rivoluzione, allo stadio superiore di una società che non sarà più l’antitesi della società capitalista, ma l’espressione del socialismo della totalità.
2
Ogni rivoluzione culturale, in passato, è stata strettamente collegata alle condizioni sociali imposte agli artisti. Oggi, il capitalismo ha separato queste ultime dalla cultura, sostituendole in quanto falsi modi di vivere o di tempo libero a ciò che dovrebbe essere la pratica reale della vita. Da questa falsa dualità tra tecnica e cultura è nata una falsa visione unitaria della civiltà. L’avvenire ed il presente di ogni rivoluzione politica e sociale dipendono prima di tutto dalla presa di coscienza di questa seconda alienazione, più profonda e meno sradicabile dell’alienazione economica.

Come il proletariato rischia di scomparire senza aver fatto la sua rivoluzione, senza aver assunto il ruolo storico che Marx gli aveva assegnato, la rivoluzione culturale rischia di essere solo una succursale sempre più forte di ciò che ormai si è soliti chiamare “pubbliche relazioni” se non si dà prima di tutto il compito rivoluzionario fondamentale del secolo, che è la scomparsa dell’ambito tecnico attraverso la tecnica stessa.

(André FRANKIN – Internazionale Situazionista, N° 3 dicembre 1959) 

giovedì 20 giugno 2013

La Resistenza all’industrialismo

La Resistenza all’industrialismo deve poggiare su un’analisi e, crediamo che alla luce di quello che sta succedendo si possano individuare alcuni punti essenziali: 
1) L’industrialismo – l’ethos che racchiude i valori e le tecnologie della civilizzazione occidentale – sta minacciando seriamente l’esistenza sociale e ambientale di questo pianeta e deve essere contrastato dai valori e dalle tecnologie di un’ethos olistico, che cerchi di preservare l’integrità, la stabilità e l’armonia della comunità biotica e della comunità umana al suo interno.
2) L’ antropocentrismo – e la sua manifestazione nell’umanesimo e nel monoteismo – è la regola principale di tale cultura, cui si deve opporre il principio biocentrista e l’identificazione spirituale dell’uomo con tutte le specie e i sistemi viventi.
3) Il globalismo – con le sue espressioni economiche e militari – è la strategia guida di questa civiltà, cui si deve opporre la strategia del localismo, fondata sul potenziamento della coerente bioregione e della piccola comunità.
4) Il capitalismo industriale – ovvero un’economia costruita sullo sfruttamento e sulla degradazione della terra – è l’impresa produttiva e distributiva di quella civilizzazione, cui va opposta la pratica di un’economia ecologica e sostenibile, basata sull’adattamento e sul dovere verso la terra e rispettosa dei principi di conservazione, di stabilità, di autosufficienza e di cooperazione.  
Un movimento di resistenza, che parta con tali principi come punti di forza della sua analisi, avrebbe almeno un fondamento solido e coerente su cui poggiare e una visione chiara e ispirata di come procedere.
Bisogna quindi riprendere certi valori che sono stati lasciati indietro quando ci siamo buttati a capofitto nella scia del progresso industriale: dobbiamo chiederci cosa abbiamo guadagnato da tutto ciò e meditare su quanto abbiamo perso.
E infine, significa asserire che un certo tipo di società ecologica primitiva, che affondi le radici in quelle tradizioni ancestrali, animistiche, autoctone, deve essere ripensata come meta indispensabile e attuabile per la sopravvivenza delle persone e l’armonia sulla terra.

Conosco una storia mai raccontata

C’era una volta un NO che incontra un SI.
Il SI ha il suo suono – un sibilo acuto è sempre uguale.
Il NO ha il suo linguaggio – un non-suono invisibile.
È inutile che corriate ad affilare antenne che non avete.
Gli ultrasuoni vi passano attraverso: neppure un fremito se non sapete sentire. Ma per chi è abituato ad usare le antenne ci sono mille silenzi che urlano nell’aria.
Parlano i NO.
E i SI non sanno ascoltare. PERCHE’ HANNO PAURA.
Che cosa c’è dietro al foglio? Quanti colori ci sono nel bianco? Qual è il colore della Follia?
Un non senso molto più chiaro di tante parole – fortuna e miseria la nobiltà è di pochi!
Una corsa nel buio: È la NOTTE DEI NO.
Voi – i SI – che vi tingete di luce per apparire – voi – del buio – avete paura.
Collocate le vostre paure nei vostri cassetti ordinati. Tra le schede dei nostri NO mille schede delle vostre mille paure - . ANCH’ESSE – mercificate al vostro Dio Capitale.
Perché per paura si produce – e si riproduce.
Per paura spesso si ride senza sorridere.
Per paura si sublima.
Per paura si reprime.
Per paura anche si uccide.
PER PAURA SOPRATTUTTO CI SI NORMALIZZA.
Allora normalizzatevi, an/anarchizzatevi, impeditevi – tutti voi che non riuscite a respirare l’angoscia del desiderio.
Irrealizzatevi, disperdetevi, condite le vostre paure perché il loro odore non sia riconoscibile fuori dalle vostre porte-finestre.
Correte a comprare i Baci Perugina per la festa della mamma – e le fettine di vitello surgelate per convalescenti.
Ma fate attenzione a quello che un giorno potreste trovare in una scatola di baci.
Ricordatevi che anche il corpo c’è. E voi – che vi trincerate dietro le vostre scrivanie per non incontrarlo – parlate senza capire.
Io da questa masturbazione collettiva mi dissocio – per ritrovare – là dove si perdono i vostri mille echi sibillanti – il linguaggio del Desiderio.
Portarsi al limite di margini inesplorati e da lì ripartire _ non per ricominciare ma per sostare _ in una quadratura mai raggiunta. 

(Rifiut/are, Roma maggio 1977) 

   

LA RIVOLUZIONE di Èmile Armand

La rivoluzione per Emile Armand va intesa come una globale rivoluzione di coscienza, un salto di qualità esistenziale, un modo radicalmente personale di rapportarsi al mondo fisico e sociale. Si tratta di suscitare e coltivare un desiderio imperioso di vivere la vita al di fuori di ogni autorità, senza tener conto delle istituzioni che mantengono la dominazione. L’azione individualista consiste in una attività capace di assimilare, sperimentare, propagare, ciascuno a propria guisa, l’anti-autoritarismo nelle varie manifestazioni dell’attività umana: etica, intellettuale, sociale, economica. E praticamente, nella soluzione personale in senso anarchico dei problemi posti dalle manifestazioni di tale attività. Esige l’auto-liberazione dell’individuo dalle influenze esterne, siano esse famigliari o sociali, la padronanza delle proprie passioni, la disponibilità di accettare nuove esperienze di vita, se queste sono in grado di far progredire la conoscenza di se stessi e la volontà individuale, la delineazione di una concezione propria della vita. Questa rivoluzione, che coinvolge integralmente l’individuo, non ammette perciò scissioni fra privato e pubblico, fra vita personale e sociale, anche se in tutto questo, beninteso, non vi è assolutamente nulla che possa ricordare l’ideologia marxiana della trasparenza e dell’identificazione del singolo con la collettività. Anzi, qui è più che mai esaltata la dimensione completamente individualistica perché a volere tale coerenza è soltanto l’individuo, che decide, se così si può dire, volta per volta, momento per momento, senza mai rendere conto a nessuno.
Nell’individualismo proposto da Armand non vi è assolutamente spazio per la rivoluzione intesa nel senso tradizionale del termine. La sua rivoluzione, in realtà, è una rivolta e in questo somiglia moltissimo a quella stirneriana, cioè un atto esistenziale che sta quasi contrapposto al rivolgimento politico-sociale. Egli pensa che la rivoluzione, come la guerra, scateni inutilmente la violenza e il desiderio di dominio gli uni sugli altri e che perciò non possa portare un vero miglioramento nella vita dell’individuo. Addirittura la storia insegna che le rivoluzioni sono sempre state seguite da sbalzi indietro che le han fatte deviare dal loro obiettivo primitivo.

giovedì 13 giugno 2013

NON CI SI SALVA DA SOLI?

Non ci si salva da soli? In verità, io sono sicuro di non salvarmi mai se aspetto la salvezza dagli altri e non da me. Se l’autonomia individuale non si abbozza dal principio, come sarebbe possibile ritrovarla alla fine? E se non siamo decisi a realizzarla fino in fondo, perché affermarla in partenza?
Condannata ieri alla liberazione nel suicidio, la lotta degli individui inizia la sua trasformazione nel rovesciamento di prospettiva. L’energia investita nella corsa al potere e al profitto si ripadroneggia sorridendo quando si accorge che per appagarsi le è rimasta solo la disoccupazione, l’inflazione, lo sfacelo dell’economia, il crollo dell’autorità e la rivoluzione amministrata da giudici in radicalità. Essa ritrova i percorsi del godimento e pretende la gratuità immediata.
Non mi aspetto che essa vinca immediatamente. L’innocenza non vuol dire credere che un magistrato, un commerciante, un militare, un assassino scelgano anche loro di godere invece di castrare la gente con il randello della loro impotenza. Chiedere a una vipera di non mordere non mi sembra impossibile, ma non al primo incontro.
Non c’è giorno che la repressione non provochi una risposta. Il commercio mi aggredisce obbligandomi a pagare, la banca mi aggredisce obbligandomi a contare, la legge e l’autorità mi aggrediscono proibendo la libertà ai miei desideri di vita. Pertanto non sarà la disinibizione della rabbia ma la violenza tranquilla del superamento che li spazzerà via.
Sarà con incantevole disinvoltura, nel modo più innocente del mondo, che gli individui, uniti da un comune desiderio di autonomia, cesseranno di pagare, di lavorare, di obbedire, di rinunciare, di invecchiare, di avere vergogna e di conoscere la paura; che agiranno secondo l’impulso dei desideri, che vivranno d’amore e di creatività.
La natura non ha altre leggi che quelle che le ha accreditato l’economia. Sono queste leggi che voi avete celebrato nella crudeltà animale e nei flagelli della terra e del cielo. Sono queste leggi che la volontà di vivere negherà socialmente in uno scontro in cui i vostri riflessi di morte non usciranno vittoriosi. La lotta contro una natura ostile cede oggi il posto all’aiuto offerto ai godimenti individuali attraverso ciò che la natura dà, e che voi avete la gloria di raccogliere alle radici della vita. La mutazione della civilizzazione umana non è in realtà che il suo completamento.
Tanto peggio se il gusto dei piaceri è fonte di errori. Noi non ne commetteremo certo di più di quelli che testimonia la macchia intellettuale di sangue che ogni rivoluzione passata ha nel cuore. Preferisco un errore spontaneo a una verità imposta. Meglio le incertezze del creatore che la coerenza del capo. 

ULTIME PAROLE di Sylvia Plath

Non voglio una cassa qualunque, voglio un sarcofago
Con striature di tigre e una faccia dipinta
Tonda come la luna, con gli occhi sgranati in su-
Voglio sembrare che li guardo quando verranno
A scavarmi fra ottusi minerali e radici.
Già li vedo – pallide facce, a una distanza astrale.
Adesso non sono nulla, non sono nemmeno in fasce.
Lì penso senza è padri né madri, con gli dei primigeni.
Si domanderanno se io sia stata importante.
Dovrei come frutta candire e conservare i miei giorni!
Il mio specchio si appanna – 
Ancora qualche fiato e non specchierà più niente del tutto.
I fiori e le facce si sbiancano come un lenzuolo.

Dello spirituale non mi fido. Sguscia via come vapore
Nei sogni, per le fessure della bocca o degli occhi. Non posso
Fermarlo, né mai tornerà. Ma non così le cose.
Loro restano, con quel piccolo brillio particolare,
da tante mani scaldato, con un brusio di piacere.
Se avrò freddo alle piante dei piedi,
mi consolerà l’occhio azzurro del mio turchese.
Siano con me le mie casseruole di rame, i miei vasi di coccio
Mi fioriscano intorno notturni fiori, dal buon profumo.
Mi avvolgeranno nelle bende, deporranno il mio cuore
Sotto i miei piedi in un bel pacchettino.
Non mi riconoscerò quasi. Sarà tutto buio,
ma ci sarà il fulgore di questi piccoli oggetti più dolce che il viso di Ishtar.


C’è molto più da distruggere che da costruire



"L’ingiustizia non è anonima,
ha nome e indirizzo."
Bertold Brecht

La teoria situazionista, come critica integrale della totalità delle condizioni di sopravvivenza e del capitalismo mercantil-spettacolare che le necessita, è stata confermata nei fatti dalla falsificazione.
Non si può combattere l’alienazione, mediante forme alienate. Il sabotaggio di questo mondo, inizia dalla rottura con i ruoli che ci impone il sistema, dal sabotaggio della nostra morte nella vita e dalla negazione del ruolo che ci hanno assegnato e disegnato. In questi momenti parlare di rivoluzione è "tenere un cadavere in bocca", abbiamo bisogno soltanto di guardarci intorno per vedere uno scenario che ci ricorda costantemente la sconfitta. Il sabotaggio è quindi un’azione che serve da propellente contro l’irrealtà che ci opprime. Una pratica che non è sfuggita al recupero ideologico che l’ha trasformata in "terrorismo" (la professionalizzazione del sabotaggio che non ha fatto altro che rafforzare il sistema, dovuto al suo carattere centralista, gerarchizzato e militarista). Oggi, non si propone la creazione di un’organizzazione armata di questo tipo, ma l’attacco diffuso di piccoli gruppi d’affinità, incontrollabili da parte di una struttura superiore, che si uniscono e si sciolgono come le maree lunari. Delle maree che nascono dalla presa di coscienza dello stato delle cose e del peggio che ci aspetta a causa degli accadimenti.
Nel XIX secolo esisteva una pratica simile che mise in scacco il capitalismo incipiente. Al di là degli attacchi luddisti le "ronde proletarie" che per la loro mancanza di struttura rigida e la loro massima flessibilità negli attacchi, resero quasi impossibile la loro repressione e il recupero, nelle quali giocano un ruolo principale anche i nascituri sindacati. Un gruppo di gente si univa, colpiva e si perdeva nella massa, mentre un nuovo gruppo si formava nel suo interno. Questo sabotaggio diffuso rese difficile per il nemico di organizzare la repressione, ciò trasforma questo attacco in un universo di piacere di teppisti illuminati, le cui sensazioni sono impossibili da descrivere o comunicare con il povero e banale linguaggio delle parole.
Il gioco della sovversione, le cui regole vengono scritte da coloro che vi partecipano, diviene un’arma efficace contro il capitalismo in tutte le sue forme.

Istituto Asturiano di Vandalismo Comparato   

(Tratto dal giornale asturiano "LLAR" - numero 33, settembre 1999)

giovedì 6 giugno 2013

La Disgregazione della civiltà industriale

Le civilizzazioni, e gli imperi che danno loro forma, possono conseguire grandi meriti – o così hanno fatto credere agli storici – ma sembrano incapaci di accettare dei limiti, e nella loro crescita e turgidezza non possono mantenere l’equilibrio e la continuità interiori ed esteriori. La civilizzazione industriale si differenzia solo perché è molto più ampia e potente di tutte quelle che l’hanno preceduta, con diversità geometriche in tutte le dimensioni e il suo crollo sarà molto più esteso e completo, molto più catastrofico.
È possibile che tale crollo sia provocato da modificazioni ambientali e sociali così gravi da minacciarne la continuazione della vita, per lo meno quella umana, sulla superficie del pianeta: la questione sarà allora se un numero sufficiente di persone sopravviverà e se il pianeta sarà abbastanza ospitale per le comunità umane, che sorgeranno dalle ceneri. È anche possibile, però, che sia causato dalla decadenza, dalla disgregazione e dalla graduale erosione degli ordinamenti dello stato-nazione, resi obsoleti e inattuabili, per il disfacimento dei giganti multinazionali incapaci di comprendere e rispondere, e sia seguito quindi da una lenta risurrezione e dalla riformazione di piccole bioregioni e comunità in grado di mantenere il controllo sul proprio destino politico ed economico.
In entrambi i casi sarà necessario, per i sopravvissuti, avere una visione del mondo che li ispiri a vivere in armonia con l’ambiente e a forgiare le tecnologie entro i limiti e gli obblighi imposti dalla natura, cercando  non di conquistare, dominare e controllare la specie e i sistemi del mondo attuale – perché il fallimento dell’industrialismo avrà ormai dimostrato la sua follia – ma di comprendere, ascoltare e amare la natura e di incorporarla nel proprio animo e nei propri strumenti.
È compito di tutto il movimento radicale neo-luddista, forte dell’esperienza passata, preparare e preservare quel complesso di conoscenze che vanno dall’autogestione generalizzata alla gratuità per la nascita di società alternative.

QUALCOSA NELL'ARIA (Après mai) di Olivier Assayas

Siamo nella provincia francese, all’inizio degli anni settanta: nell’aria c’è ancora la rivolta del sessantotto parigino, che permea vite, rapporti, sensibilità. Assistiamo alle vicissitudini di un gruppo di amici, che praticano una vita assolutamente libertaria, piena di caos creativo, ed in conflitto con tutti i dogmi, anche quelli della sinistra istituzionale francese. Vediamo i duri scontri con la polizia, le rapide azioni dimostrative notturne e le conseguenti fughe, gli incidenti, le  derive violente, gli errori, l’anelito alla realizzazione del sé nella creazione artistica, la disperata ricerca di una umanità nuova e di rapporti sociali più equi. Attraverso la narrazione di Gilles, figlio di un autore di fiction televisive, da cui mutuerà la passione per il cinema, ma che contesta in quanto creatore di opere “borghesi”, appassionato di tutte le arti figurative e della musica, vera interprete dello spirito del tempo, il ragazzo passa serate intere ad ascoltare intensamente la colonna sonora della sua generazione. Insieme ai suoi amici egli organizza proteste e prepara volantini. Persa la sua ragazza, Laure, che, partendo per Londra, gli dona un libro del poeta “beat” Gregory Corso, si reca, quindi, in gruppo in Italia, fermandosi a Firenze, ove incontra la dolce Christine, militante inflessibile, che però l’abbandona, per recarsi a Reggio Calabria a filmare le lotte operaie, mentre lui ritorna in Francia. Ognuno del gruppo alla fine seguirà la sua strada, chi intraprende la carriera artistica e, sulle orme di Alighiero Boetti, decide di partire per l’Afghanistan passando per l’Italia e Firenze; c’è chi invece parte da Parigi per la Calabria per andare a documentare, macchina da presa in spalla, il lavoro operaio nelle fabbriche; chi continua con la militanza perdendosi nei vari collettivi post rivoluzionari, chi si perde invece nell’esperienza lisergica e chi come Gilles, decide di andare a Londra a fare cinema, per nulla militante.
Assayas si cala splendidamente nello spirito dell’epoca, quando ogni incontro con un altro essere umano sembra portatore di speranza, ogni libro letto rappresenta un’avventura dello spirito, ove l’ascolto della musica espande la mente, ed il caos anarchico generato dal Maggio crea nuove identità, mentre la “Summer of Love” californiana è portatrice di nuove suggestioni artistiche ed esistenziali. Descrive con pagine toccanti l’incontro tra i ragazzi francesi e quelli italiani, lo scambio delle loro esperienze di lotta, la loro fratellanza.
Al di là di ogni valutazione politica, le proteste studentesche del maggio ’68 a Parigi sono state un momento di grande esplosione creativa in cui slogan diventati ormai storici invitano a vedere il mondo con gli occhi della fantasia al potere, a sollevare l’acciottolato della città per trovare la spiaggia. Olivier Assayas racconta il suo alter ego Gilles, giovane liceale nella Parigi degli anni settanta che, con alcuni compagni, si divide tra l’impegno politico, gli amori e la pittura. Vivere anarchici nell’arte, oltre che nella vita quotidiana. Il regista sembra dirci che la propria personale rivoluzione e l’autodeterminazione sono condizione essenziale per trasformare la società (non a caso uno dei primi graffiti dei giovani ribelli è dedicato al leader ucraino Nestor Machno). Assayas evoca potentemente il post sessantotto attraverso una ricostruzione d’epoca credibile ed efficace, che non cede all’agiografia e alla mera mitizzazione celebrativa. Trascina lo sguardo dello spettatore in un passato di cui non viene censurato né ripulito niente: dalla brutalità subita ai sassi lanciati, dall’abuso di droghe all’ottusità dei compagni secondo i quali Robert Crumb è banale oscenità o la macchina da presa è buona solo per l’agit-prop.
 Qualcosa nell’aria, riesce dove pochi sono riusciti, a fare cioè un film sul Sessantotto e sugli anni subito successivi che pur essendo totalmente militante e impegnato non è né retorico né, soprattutto, nostalgico. L’educazione politica e sentimentale del giovane Gilles diventa lo specchio delle conseguenze politiche e sociali di un’epoca tutta. Gilles e i suoi amici rappresentano la deriva di contraddizioni generatesi all’interno del maggio parigino, e le scelte portate avanti dai personaggi rappresentano i vari sbocchi in cui si diramò il movimento negli anni immediatamente successivi al suo decollo.



Le pratiche sarcofagiche


"A forza di lavare, insaponare, forbire, spazzolare, pettinare, spugnare, pomiciare, pulire e ripulire, succede che tutto il sudiciume delle cose lavate passa alle cose viventi." (Victor Hugo)

Così per la morte: a forza di essere lavata e spugnata, pulita e ripulita, negata e scongiurata, succede che essa passa in tutte le cose della vita. Tutta la nostra cultura è igienica: essa mira a epurare la vita dalla morte. E' la morte che prendono di mira i detersivi nel più piccolo bucato. Sterilizzare la morte ad ogni costo, vetrificarla, criogenizzarla, climatizzarla,  truccarla, design-arla, braccarla con lo stesso accanimento della sporcizia, del sesso, dei residui batteriologici o radioattivi, Make-up della morte: la formula di Hugo fa pensare a quei funerales homes americani dove la morte è immediatamente sottratta al lutto e alla promiscuità dei vivi per essere design-ata secondo le più pure regole dello standing dello smilig e del marketing internazionale 
La cosa più inquietante non è che si rifaccia al morto una bellezza e che gli si dia un'aria di rappresentanza. Tutto le società lo hanno sempre fatto. Hanno sempre evitato l'abiezione della morte naturale. l'abiezione sociale della decomposizione, che priva il corpo dei suoi segni, della sua forza sociale di significare, per non essere più che una sostanza - e immediatamente precipita il gruppo nel terrore della propria decomposizione simbolica. Bisogna adornare la morte, coprirla di artificialità, per evitare quel momento insopportabile della carne che è restituita soltanto a se stessa, e che ha cessato di essere segno. Già le ossa spolpate e lo scheletro suggellano la possibile riconciliazione del gruppo, perché ritrovano la forza della maschera e del segno. Ma, tra i due momenti, c'è  questo passaggio abbietto attraverso la natura e il biologico, che bisogna scongiurare ad ogni costo mediante pratiche sarcofagiche (divoratrici di carne) che sono in realtà pratiche semiurgiche. Tutta la tanatoprassia, anche nelle nostre società, si riassume quindi come volontà di scongiurare questa improvvisa perdita di segni che si è abbattuta sul morto, di impedire che rimanga, nella carne asociale del morto, qualcosa che non significa nulla.