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giovedì 7 febbraio 2013

SANGUE DI CONDOR di Jorge Sanjinés


In un paese delle Ande boliviane, un centro medico statunitense del cosiddetto “Corpo della Pace”, che dovrebbe fornire assistenza sanitaria alle donne indie partorienti, le sottopone in realtà a sterilizzazione. Il capo della comunità india, Ignacio, scopre questo inganno criminale e, alla testa dei compaesani, insorge contro i medici, mutilandoli. La repressione della polizia contro i contadini è feroce; Ignacio, gravemente ferito, viene trasportato dalla moglie Paulina in un ospedale di La Paz, ove muore senza essere adeguatamente curato perché suo fratello Sisto non riesce a procurarsi il plasma necessario per una trasfusione. Rivestito il costume della sua comunità, il contadino inurbato Sisto torna al paese per lottare con le armi contro il neocolonialismo imperialista.
Sangue di Condor, il secondo lungometraggio del boliviano Jorge Sanjinés, stupisce per la sicurezza dello sviluppo narrativo quanto entusiasma per la chiarezza e per la forza della visione rivoluzionaria. Una comunità india emarginata e consumata dalla miseria e dalla coca, demograficamente impoverita dall’emigrazione urbana e dall’elevata mortalità infantile, è la cavia su cui viene posta in pratica una delle idee chiave dell’Alleanza del Progresso: la sterilizzazione delle donne dei paesi sottosviluppati. Per l’indio dell’Altipiano i figli sono l’unica risorsa per combattere contro la miseria, anche se contribuiscono a rendere più acuto il problema sociale. Per questa ragione, forse, Sangue di Condor non presenta una soluzione semplicistica del problema demografico, ma si limita a denunciare la politica imperialista del deliberato genocidio “scientifico” praticato sia con bombe, sia con operazioni chirurgiche.
Jorge Sanjinés
Sangue di Condor è uno dei migliori esempi di cinema politico latino-americano, e contrariamente a quanto spesso è avvenuto nella teoria e nella prassi di certo cinema militante, la dimensione estetica non è rifiutata o completamente sottomessa alla dimensione ideologica, ma viene assunta dal regista come momento primario della comunicazione-espressione ideologica.
Se da un lato è di indubbia efficacia il dato ideologico, propagandistico, agitatorio del film, dall’altro pare assai interessante il modo in cui l’apparente tono veristico viene continuamente superato e negato dall’intelligente elaborazione stilistica di un realismo rigoroso. Un sapiente uso del montaggio scompone la dimensione temporale dell’intreccio; i bellissimi primi piani dei volti degli indios, mentre pongono in risalto l’intensità dello sguardo e della fisonomia delle persone, operano una stilizzazione delle figure umane che ha qualcosa di monumentale, che fa ricordare la grandezza della civiltà Inca. Tema autentico del film è dunque la proposta della cultura india quale vera “civiltà”, in contrapposizione alla barbarie importata dai colonizzatori europei e nordamericani. La reale e particolare opera di sterminio condotta dall’imperialismo statunitense contro la razza india assume così l’aspetto di una metafora della violenza che il capitalismo esercita e pianifica in ogni paese del Terzo Mondo per imporre ovunque il suo modello di sviluppo.
Da questo ritratto doloroso d’una civiltà prossima alla morte, emerge una prospettiva reale di mutamento: con la rivoluzione, rivolgendo le armi contro i colonizzatori, gli “ex-Inca” possono ritrovare la grandezza e la forza di un tempo, possono riconquistare le radici della loro cultura con piena coscienza del loro significato e del loro valore.
  

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