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giovedì 10 gennaio 2013

LO SPAZIO-MANICOMIO


Murato dentro lo spazio-città c’è lo spazio-manicomio, e dentro di esso nuovi spazi: viali, cameroni, soggiorni, gabinetti, gabinetti medici, cucine, uffici, corridoi. Concentriche partizioni che ove troppo vaste annientino e ove troppo anguste incarcerino.
Lo spazio del manicomio sancisce una frammentazione, nega ogni possibile ricomposizione. Il degente diviene “corpo espropriato”; l’istituzione psichiatrica razionalizza l’esclusione operata dalla psichiatria e trasforma il soggetto della sua “cura” in puro ingombro volumetrico, il corpo del degente in suppellettile assimilabile agli arredi del manicomio; innaturalmente la malattia ed il suo corso divengono naturali.
Il manicomio è spazio per l’esclusione e quindi esclude da sé ogni luogo perché nello spazio è consentito il controllo mentre nel luogo fluisce la vita. Il potere partisce tutto il territorio in spazi: spazi-città, spazi-fabbrica, spazi-scuola, spazi-caserma, spazi-carcere,  spazi-divertimento, spazi-famiglia, spazi-malattia, spazi follia, ne indica le regole, ne contrasta le trasgressioni.
Ciò che dobbiamo leggere attraverso le immagini di questi spazi manicomiali, non è solo la sofferenza di chi li abita, ma soprattutto la violenza di chi li ha concepiti; dobbiamo leggere l’asservimento della psichiatria all’ideologia del controllo sociale, ma anche tutti gli asservimenti di ogni sapere che più o meno consapevolmente aderisca al progetto evidente o miniaturizzato del controllo.
I mezzi di contenzione fisica accompagnano con lugubre evoluzione tutta la storia della psichiatria. Ne sono indispensabile strumento. Probabilmente è vero il contrario: la psichiatria è strumento della contenzione.
Non bisogna mai dimenticare che la logica della istituzione totale non si copre con una moquette, ma si cancella, cancellando l’istituzione stessa.

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