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giovedì 31 gennaio 2013

DIFESA DEL TERRITORIO


Tra gli uomini d’affari, politici compresi e la difesa del territorio non c’è spazio sufficiente per il dialogo, dato che i rispettivi interessi sono diametralmente opposti: se ci sono affari è a scapito del territorio; se c’è un beneficio per il territorio è a scapito di perdite da parte capitalista. È il conflitto sorge soltanto da un’opposizione radicalmente inconciliabile. Perciò i difensori del territorio devono riconoscerlo: non devono dialogare ma combattere. Non devono scegliere tra la parola e l’azione, ma tra la difesa e l’attacco. Le conseguenze dell’espansione capitalistica metropolitana sono le mostruose conurbazioni e la scomparsa del mondo rurale; l’agricoltura transgenica industriale il mezzo adeguato per alimentare simili orrori. Possiamo dire altrettanto delle dighe, delle centrali, delle autostrade, dei megaporti, aeroporti e TAV: sono le strutture che meglio corrispondono all’aprovvigionamento di acqua ed energia o alla mobilità delle persone e alla circolazione delle merci proprie delle aree metropolitane.
Siamo di fronte a uno scontro tra la metropoli e il territorio che ha la pretesa di colonizzare e per ironia della storia la causa della libertà, la ragione e il desiderio hanno abbandonato le città, per rifugiarsi in campagna, e da lì lanciare il contrattacco alle forze antistoriche domiciliate nelle conurbazioni. Lontano dei centri del commercio, quindi lontano dalla mercificazione del vivere e dalla statalizzazione dell’esistenza, lo spazio e il tempo riacquistano un qualche significato e permettono agli individui di recuperare la memoria e cooperare contro l’ingiustizia capitalista costruendo, se si oltrepassa l’orizzonte delle piattaforme, una nuova identità di sfruttati ancorata al territorio, quindi alla loro condizione concreta di abitanti, non alla condizione astratta di cittadini. Tale identità non deve aspirare a fornire una cornice più regolata al mercato degli alloggi e dei terreni, ma ad abolire qualsiasi relazione mercantile; nemmeno pretenderà di integrare il regime tecnocratico, che ama chiamarsi “democrazia” quando altro non è che totalitarismo dissimulato, ma sostituirlo con una vera democrazia di base, orizzontale, diretta, comunitaria, auto gestionale.  

ILLEGALISTI ED ESPROPRIATORI


L'espropriazione era il cosiddetto recupero, la ripresa individuale (o sociale, a seconda delle definizioni e dei punti di vista) professata dai fautori dell’illegalità in seno al movimento anarchico. Secondo alcuni, il furto giustiziere – che non era altro che la ripresa di quanto la borghesia aveva legalmente rapinato al popolo – minava il potere della borghesia sfidando le sue istituzioni, la indeboliva economicamente e contribuiva al sostentamento sia del recuperatore individuale sia delle organizzazioni anarchiche, sempre assillate da problemi finanziari. Inoltre, se preso in tribunale l’illegalista aveva la possibilità di poter  fare propaganda (non rischiando la morte come spesso gli attentatori alla dinamite), trasformandosi da accusato ad accusatore. La questione dell’illegalità si pose in quel periodo a molti anarchici, che avevano capito la generale sterilità degli attentati individuali.
Dal 1881 (congresso anarchico di Londra) al 1894 (attentato di Caserio contro Sadi-Carnot) il movimento anarchico era stato preso nella spirale della Propaganda coi fatti. Dopo tale data il movimento si divise in diverse posizioni, tutte però contrarie a tale tipo di azione. Una tendenza erano appunto gli illegalisti (che già nel 1879 a Parigi, con Faure e Reclus vedevano la validità ai fini rivoluzionari dell’attentato alla proprietà borghese, mentre Jean Grave vi si opponeva rifiutandosi di perpetuare il furto e la truffa che costituiscono l’essenza della società borghese). Gli espropriatori e illegalisti, erano giunti alla conclusione che ben più efficace della dinamite sarebbe stato contro la borghesia il colpirla nel suo punto debole, cioè nei suoi interessi economici, derubandola di quanto più denaro era possibile. Altra corrente era quella anarco-sindacalista, la quale propugnava un movimento anarchico di massa con l’entrata dei libertari nei sindacati, che ritenevano strumento in grado di far raggiungere gli scopi rivoluzionari (come avrebbero sostenuto Pouget e Monatte nel 1907 al congresso di Amsterdam); c’era infine la linea pura sostenuta da Errico Malatesta anche ad Amsterdam, che voleva un movimento anarchico coerente alle sue origini e tradizioni politiche.  

Istruzioni per una rivoluzione


Se vi è qualcosa di risibile nel parlare di rivoluzione, è evidentemente perché il movimento rivoluzionario organizzato è sparito da molto tempo nei paesi moderni, precisamente dove sono concentrate le possibilità di una trasformazione decisiva della società. Ma tutto il resto è ancora ben più risibile, poiché si tratta dell’esistente e delle sue diverse forme di accettazione. Il termine rivoluzionario è stato disinnescato fino a giungere a designare, come pubblicità, qualsiasi minimo cambiamento nel dettaglio della produzione delle merci incessantemente modificata, perché non c’è più un luogo dove siano espresse le possibilità di un cambiamento centrale desiderabile. Il progetto rivoluzionario, ai giorni nostri, compare dinnanzi alla storia sul banco degli accusati: gli si rimprovera di aver fallito, di aver portato una nuova alienazione. Ciò significa constatare che la società dominante ha saputo difendersi a tutti i livelli della realtà molto meglio di quanto i rivoluzionari avessero saputo prevedere. Non che sia diventata più accettabile. La rivoluzione deve essere reinventata, ecco tutto.
I gruppi che cercano di creare un’organizzazione rivoluzionaria di tipo nuovo, incontrano la più grossa difficoltà nel compito di stabilire nuovi rapporti umani all’interno di una simile organizzazione. La libera costruzione di tutto lo spazio-tempo della vita individuale è una rivendicazione che bisognerà difendere contro ogni sorta di aspirazioni all’armonia dei candidati manager del prossimo ordinamento sociale. 
La partecipazione e la creatività delle persone dipendono da un progetto collettivo che riguarda esplicitamente tutti gli aspetti del vissuto. È anche la sola via per “infuriare il popolo” facendo apparire il terribile contrasto fra le costruzioni possibili della vita e la sua miseria presente. Senza la critica della vita quotidiana, l’organizzazione rivoluzionaria non ha futuro.
Quindi qualunque cosa noi possiamo diventare a livello individuale, il nuovo movimento rivoluzionario non si formerà senza tener conto di ciò che abbiamo ricercato insieme, e che può esprimersi come il passaggio della vecchia teoria della rivoluzione permanente ristretta ad una teoria della rivoluzione permanente generalizzata.


giovedì 24 gennaio 2013

La comunità anarchica di Eliseo Reclus


L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa. Ma cos’è la natura? La natura è quell’unità meravigliosa che presiede tutte le cose, le cui leggi esprimono una grande semplicità. Essa è un’immensa sintesi che si presenta a noi in tutta la sua infinità e non pezzo per pezzo. Ciò significa, anarchicamente, che è veramente sintetica quando è veramente infinita, cioè diversificata. Perciò se la sua universalità si coglie nella “completezza” (non può essere presa pezzo per pezzo), la sua infinità si rivela nella complessità, nel senso che la diversità è la condizione dell’unità; un’unità che deriva dal fatto che la Terra e l’umanità presentano un’eguale, intrinseca regola, quella, appunto, dell’unità nella diversità: e questa la sintesi anarchica. Nella società, come nella natura , perché vi sia vera coesione vi deve essere libertà, differenza, autonomia, specificità. L’uomo deve appropriarsi delle leggi naturali attraverso la conoscenza scientifica, con l’osservazione della natura controllata dall’esperienza e guidata da ipotesi in ipotesi. Questa conoscenza gli permette di scoprire qual è il nesso che unisce il tutto attraverso l’infinità diversità. Segreto che dà la possibilità di scoprire il modo di vivere la propria vita, adeguandola ai ritmi naturali. Sempre, beninteso, se l’uomo vuole preservare un’organica armonia con la natura perché solo così può esservi una vera società, come del resto, un’autentica armonia naturale non potrà che essere il risultato di una giusta comunità umana. Si tratta, insomma, di conciliare la storia con la natura, fondendone l’una nell’altra.
In conclusione la comunità deve apprendere da se stessa come adattarsi sempre più alle condizioni intime dell’ambiente.

21ST CENTURY SCHIZOID MAN King Crimson


Zampa di gatto, artiglio d'acciaio
Neurochirurghi ne chiedono ancora
Alla porta avvelenata della paranoia
Lo schizoide del ventunesimo secolo

Sangue, tortura, filo spinato
La pira funeraria dei politici
Innocenti violentati dal fuoco del napalm
Lo schizoide del ventunesimo secolo

Seme della Morte, avidità del cieco
Poeti muoiono di fame, bambini sanguinano
Non c'è niente che possieda di cui abbia davvero bisogno
Lo schizoide del ventunesimo secolo

PRODUZIONISMO O FUTURO PRIMITIVO


Produzionismo o futuro primitivo: due materialità. Una provocata dall’estinzione dello spirito, l’altra dall’aver abbracciato lo spirito nella sua realtà terrena. L’abbandono volontario del modo di vivere industriale non è una rinuncia, ma una regressione salutare. Abbandonando la condizione e la direzione attuale del mondo, andiamo a cercare una guida presso quelli che hanno continuato a vivere spiritualmente nella natura. Il loro esempio mostra cosa ci serve per percorrere la nostra strada verso ciò che tuttora attende, tutt’attorno a noi.
Il primitivismo trae forza dall’aver capito che, a prescindere da quanto le nostre vite siano state deprivate negli ultimi 10000 anni, gli essere umani paiono aver vissuto in modo sano e autentico per gran parte dei quasi due milioni di anni sul pianeta. Questa corrente antiautoritaria, si sta muovendo nella direzione del naturalismo primitivo e contro una totalità che si sposta esattamente in direzione opposta a questa condizione. La rivista “Terra Selvaggia” ha descritto questo sentimento in modo ammirevole: “E poi, in fondo, cos’è questa globalizzazione di cui si parla ultimamente, forse il processo di espansione dei mercati verso lo sfruttamento dei paesi più poveri, e delle loro risorse, a scapito di quelli ricchi? Forse l’uniformarsi delle culture e la diffusione di un modello dominante? Ma allora, perché non usare il termine civilizzazione, che suona sicuramente meno minaccioso, ma è calzante, senza necessita di neologismi. Non c’è dubbio che i media, e non solo, abbiano il loro buon tornaconto a mischiare di tutto nel vago minestrone anti-globalizzazione; sta a noi dunque fare chiarezza nelle cose, approfondire le critiche e agire di conseguenza”.
In questa lotta, o tutto o niente. Anarchia è solo un nome per quelli che abbracciano la sua promessa di riscatto e pienezza, e cercano di guardare in faccia il fatto che arrivarci sarà un lungo viaggio. Noi umani stavamo là, un tempo, se dobbiamo credere agli antropologi. Ora scopriremo se possiamo ritornarci.
Molto probabilmente, è la nostra ultima possibilità come specie.

giovedì 17 gennaio 2013

IL REGNO DELLE COSE


La signoria inequivocabile che toglieva tutto a tutti consumava senza residui la sua ricchezza: la miseria era astante, inginocchiata. La ricchezza era la celebrazione, concentrata nell’essenza dei signori, del sacrificio di tutti. L’estrazione di ricchezza dalla miseria trapassava nella pura trascendenza della signoria, specchio chiaro in cui la miseria riconosceva il proprio sacrificio e la sua irreversibilità. Non altro poteva essere distribuito che questa immagine sacra.
Ma quando la miseria astante si riconosce come classe, lo specchio è spezzato: sotto la liturgia della consumazione rimbomba la minaccia del ferro e del fuoco. Perché la minaccia non si materializzi, non diventi il ferro e il fuoco, occorre che il sacrificio perda la sua trascendenza, occorre un’eucarestia che distribuisca in particole l’agnello, che socializzi l’espiazione: occorre che il sacrificio si spieghi. 
La democrazia borghese, così come tutti i centralismi democratici, non sono altro che questo: eucarestia del dominio, introiezione in ciascuno della figura parcellizzata del dominio, “spiegazione” (cioè razionalizzazione) del sacrificio (cioè dell’alienazione); liturgia del sacrificio necessario nella “grazia” (cioè nella responsabilità d’esser schiavi) del ruolo; catechismo della coscienza del ruolo contro la tentazione demoniaca del rifiuto radicale del sacrificio (cioè contro la coscienza di classe e la volontà di negazione totale dell’esistente). Perché l’operazione possa aver luogo occorre che il potere stesso perda la sua visibilità “pura”, occorre cioè che si mostri come immagine e somiglianza di ciò che vuole riprodurre identico a sé: mera funzione anonima, macchina, potere senza volto, ragione totalitaria degli insiemi separati: beati i poveri di spirito perché di essi sarà il regno delle cose.
Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno per amministrarle, non solo del re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere. 

DYNAMITE, Chicago 1886


La circolare "Vendetta"
21 aprile 1886
“Chi accetta l’ordine attuale delle cose non ha nessun diritto di lamentarsi dell’estorsione capitalistica, perché ordine significa sostenerla; chi si rivolta … è un ribelle, e non ha diritto di lamentarsi se è costretto a scontrarsi con i soldati. Ogni classe si difende come può. Il ribelle che si mette a mani vuote davanti alla bocca del cannone dei suoi nemici, è un folle”.

28 aprile 1886
“Dobbiamo affrontare la polizia e i soldati … con eserciti armati di lavoratori. Oggi le armi sono più necessarie di ogni altra cosa. Chi non ha soldi venda il suo orologio, se ne ha uno, per comprare un fucile. Non bastano pietre e bastoni contro gli assassini prezzolati di coloro che estorcono il denaro. È venuto il momento di armarci!”

01 maggio 1886
“Avanti con coraggio! La lotta è cominciata … lavoratori la vostra parola d’ordine sia: nessun compromesso! I codardi alla retroguardia, gli uomini al fronte! Il dado è tratto! Il primo maggio è arrivato … pulite i fucili, procuratevi le munizioni. Gli assassini prezzolati dei capitalisti, polizia e milizia, sono pronti ad uccidere. Nessun lavoratore in questi giorni deve uscire di casa con le tasche vuote”.

04 maggio 1886
“SANGUE! Piombo e Polvere sono la medicina per i lavoratori insoddisfatti.
Questa è la Legge e l’Ordine! …
Nei loro palazzi si riempiono i calici con vini costosi e brindano alla salute dei sanguinari banditi della Legge e dell’Ordine. Asciugatevi le lacrime, poveri che soffrite. Prendete coraggio! Fate insorgere il vostro potere e abbattete nella polvere il dominio esistente del ladrocinio!” 
La bomba a Haymarket

(Archivio Storico: Chicago, estratti dal giornale anarchico Arbeiter Zeitung)

LA DISCIPLINA DEL LAVORO

Nel mondo reale il capitalismo subordina l’aumento razionale della produttività e del surplus alla propria esigenza di tenere sotto controllo l’organizzazione della produzione.
Il senso di degradazione che molti lavoratori sperimentano sul lavoro deriva da un insieme assortito di prevaricazioni, le quali possono essere tutte riassunte nel termine “disciplina”. Nell’analisi di Foucault tale fenomeno appare piuttosto complesso, mentre in realtà esso risulta essere abbastanza semplice. La disciplina consiste nell’insieme di quei sistemi di controllo totalitari che vengono applicati sul posto di lavoro – sorveglianza, lavoro ripetitivo, imposizione di ritmi di lavoro, quote di produzione, cartellini da timbrare all’entrata e all’uscita - . la disciplina è ciò che la fabbrica, l’ufficio e il negozio condividono con la prigione, la scuola e il manicomio. Storicamente questo sistema risulta essere qualcosa di originale e terrificante. Un tale risultato va al di là delle possibilità di demoniaci dittatori del passato quali Nerone, Gengis Khan, o Ivan il Terribile. Nonostante le loro peggiori intenzioni, essi non disponevano di macchine atte a un controllo dei loro sudditi così capillare quanto quello attuato dai despoti moderni. La disciplina è un diabolico modo di controllo tipicamente moderno, è un corpo estraneo prima d’ora mai visto, e che deve essere espulso alla prima occasione.
Tale è la natura del “lavoro”. Mentre il gioco è esattamente il suo opposto. Il gioco è sempre deliberato. Ciò che altrimenti sarebbe gioco si tramuta in lavoro quando diviene una attività coercitiva.
Ricordiamoci sempre: delle regole ci si può prender gioco facilmente, come di qualsiasi altra cosa, basta volerlo.  

giovedì 10 gennaio 2013

PROSPETTIVE PER UNA GENERAZIONE


Una società folle si propone di predisporre il suo avvenire generalizzando l’uso di camicie di forza individuali e collettive tecnicamente perfezionate (case, città, territorio pianificato), che ci impone come rimedio ai suoi mali. Noi siamo invitati ad accettare, a riconoscere come nostro questo “corpo inorganico” prefabbricato; il potere medita di rinchiudere l’individuo in un altro sé, radicalmente altro. Al fine di adempiere a questo compito, effettivamente vitale per lui, oltre ai cortigiani (urbanisti, pianificatori del territorio), può contare sui fuorviati che fanno attualmente gli straordinari nelle scienze cosiddette umane. I servitori, segnatamente, di un’”antropologia” non più speculativa ma strutturale ed operativa, si adoperano attivamente ad estrarre una “natura umana” in più, ma questa volta direttamente utilizzabile, a somiglianza di una scheda della polizia, attraverso le diverse tecniche di condizionamento. Il risultato ultimo del processo così iniziato (ammesso che la crescita delle forze della nuova contestazione che l’accompagna dappertutto gliene dia il tempo) si denuncia fin d’ora come la versione modernizzata di una soluzione già sperimentata, il campo di concentramento, qui decentrata sull’insieme del pianeta. Le persone vi saranno assolutamente libere, soprattutto di andare e venire, di circolare, ma interamente prigioniere di questa libertà futile di andare e venire nei viali del potere.
Bisogna dirlo, non è possibile riorganizzare l’alienazione e l’oppressione nella società, in nessuna delle loro varianti, ma solo respingerle in blocco con questa stessa società. 
Il compito di di riunificare lo spazio e il tempo in una costruzione libera dello spazio-tempo individuale e sociale appartengono alla rivoluzione che viene: la disfatta dei “pianificatori”, essa coinciderà con una trasformazione decisiva della vita quotidiana, sarà questa, sarà questa trasformazione. 

IL CAMERATA di Jean Cocteau


Quel pugno di marmo era palla di neve,
e gli stellò il cuore,
stellò la blusa del vincitore,
stellò il vincitore nero che niente protegge.

Rimase stupefatto, in piedi,
nella garitta della sua solitudine,
gambe nude sotto il vischio, le noci d’oro, l’alloro,
stellato come la nera lavagna di scuola.

Così partono dal collegio sovente
i pugni che fanno sputare il sangue,
i pugni duri delle palle di neve,
che la bellezza dà, passando, al cuore.

LO SPAZIO-MANICOMIO


Murato dentro lo spazio-città c’è lo spazio-manicomio, e dentro di esso nuovi spazi: viali, cameroni, soggiorni, gabinetti, gabinetti medici, cucine, uffici, corridoi. Concentriche partizioni che ove troppo vaste annientino e ove troppo anguste incarcerino.
Lo spazio del manicomio sancisce una frammentazione, nega ogni possibile ricomposizione. Il degente diviene “corpo espropriato”; l’istituzione psichiatrica razionalizza l’esclusione operata dalla psichiatria e trasforma il soggetto della sua “cura” in puro ingombro volumetrico, il corpo del degente in suppellettile assimilabile agli arredi del manicomio; innaturalmente la malattia ed il suo corso divengono naturali.
Il manicomio è spazio per l’esclusione e quindi esclude da sé ogni luogo perché nello spazio è consentito il controllo mentre nel luogo fluisce la vita. Il potere partisce tutto il territorio in spazi: spazi-città, spazi-fabbrica, spazi-scuola, spazi-caserma, spazi-carcere,  spazi-divertimento, spazi-famiglia, spazi-malattia, spazi follia, ne indica le regole, ne contrasta le trasgressioni.
Ciò che dobbiamo leggere attraverso le immagini di questi spazi manicomiali, non è solo la sofferenza di chi li abita, ma soprattutto la violenza di chi li ha concepiti; dobbiamo leggere l’asservimento della psichiatria all’ideologia del controllo sociale, ma anche tutti gli asservimenti di ogni sapere che più o meno consapevolmente aderisca al progetto evidente o miniaturizzato del controllo.
I mezzi di contenzione fisica accompagnano con lugubre evoluzione tutta la storia della psichiatria. Ne sono indispensabile strumento. Probabilmente è vero il contrario: la psichiatria è strumento della contenzione.
Non bisogna mai dimenticare che la logica della istituzione totale non si copre con una moquette, ma si cancella, cancellando l’istituzione stessa.

giovedì 3 gennaio 2013

Chi ha paura della Comune?


La Comune è stata la più grande festa del 19° secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia, non tanto al livello della decisione politica “governativa”, quanto invece a livello della vita quotidiana, in quella primavera del 1871 (per esempio il gioco di tutti con le armi; il che significa giocare con il potere). È anche in tal senso che bisogna capire Marx : ”la più grande misura sociale della Comune è stata la sua esistenza in atto”.
La Comune non ha avuto capi. E questo in un periodo storico nel quale l’idea che fosse necessario averne dominava completamente il movimento operaio. Così si spiegano, prima di tutto, le sue sconfitte e i suoi successi paradossali. Le guide ufficiali della Comune erano degli incompetenti (se si prende, come riferimento, il livello di Marx, o anche Lenin e persino Blanqui). Ma in compenso, gli atti “irresponsabili” di quel momento sono precisamente da rivendicare per il seguito del movimento rivoluzionario del nostro tempo (anche se le circostanze li hanno limitati quasi tutti allo stadio distruttivo. L’esempio più conosciuto è l’insorto che dice al borghese sospetto, che afferma di non essersi mai occupato di politica: “è proprio per questo che ti uccido”.
La Comune rappresenta, fino ad ora, la sola realizzazione di un urbanesimo rivoluzionario, poiché essa ha attaccato, nella pratica, i segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita, riconoscendo lo spazio sociale in termini politici, rifiutandosi di credere che un monumento possa essere innocente. Coloro che riconducono questo aspetto ad un nichilismo da sottoproletari, alla irresponsabilità delle incendiarie, devono, in contropartita, confessare tutto ciò che essi considerano positivo, da conservare, nella società dominante (si vedrà che è praticamente tutto).
La Comune mostra come i difensori del vecchio mondo beneficino sempre, per un aspetto o per l’altro, della capacità dei rivoluzionari; e soprattutto di coloro che pensano la rivoluzione. E precisamente là dove i rivoluzionari pensano come loro. Il vecchio mondo mantiene così delle basi (l’ideologia, il linguaggio, i costumi, i gusti) nello sviluppo dei suoi nemici, e vi si inserisce per riguadagnare il terreno perduto. (Solamente il pensiero in atto, naturale per il proletariato rivoluzionario, gli sfugge una volta per tutte: la Corte dei Conti è bruciata). La vera “quinta colonna” è nello spirito stesso dei rivoluzionari.
L’audacia e l’immaginazione della Comune non si misurano, evidentemente in rapporto alla nostra epoca, ma in rapporto alla banalità di allora nella vita politica, intellettuale, morale. In rapporto alla solidarietà di tutte le banalità alle quali la Comune ha appiccato il fuoco. Così, considerando la solidarietà delle banalità attuali, si può concepire l’ampiezza della creatività che possiamo attenderci da un’esplosione uguale.

BRAZIL di Terry Gilliam


Brazil è l’immaginario frustrato di un timido impiegato Sam Lowry, ossessionato da una madre sempre sotto i ferri della chirurgia estetica e da un lavoro alienante e delatorio per il Dipartimento Informazioni, schiacciato dal peso della burocrazia informatica, innamorato di una camionista estremista (una donna simile a quella che insegue nei suoi sogni, nei quali ogni volta ella si trasforma in angelo) e aiutato da un misterioso terrorista acrobata dell’aria condizionata. Ma il potere uccide la donna e imprigiona Sam accusato di tradimento dai burocrati, sopporta i supplizi e gli interrogatori continuando a sognare, fino a stremare i suoi persecutori.
Brazil è un mondo a se stante, un vero pastiche di generi e suggestioni. Una esplosione di citazioni cinematografiche e letterarie. Un labirinto di ansia individuale e angosce collettive. Un mondo in cui non si muove un passo senza moduli e autorizzazioni, in cui l’unica via di fuga è il sogno. 
Animato da un’energia esplosiva e maniacale, Brazil vaga nei meandri impazziti di un mondo spersonalizzante, un nero 1984 nel quale l’ordine si è dato forme di follia e la scenografia si è avvoltolata in contorsioni prestabilite. La fantasia è cupa, sotterranea, paralizzante: una parabola oscura con la quale Gilliam mostra una società basata sull’opulenza per pochi, sulla merce, sul consumismo obbligatorio per tutti, sulla bellezza, sulla omologazione e sul controllo totale.
Là dove l’ordine politico e culturale fondato sull’accumulo diventa insopportabile, soffocante, scoppiano attentati eseguiti da misteriosi commando eversivi che si annidano negli uffici, nelle officine, tra i corridoi dei supermercati. L’allusione alla politica interna inglese è evidente, Brazil è il primo film che attribuisce una valenza positiva all’azione terroristica in un contesto occidentale, e che riconosce nello stesso tempo l’avvenuto naufragio di un modus vivendi che ha prodotto, dopo l’impero, la sporcizia e il grigiore della società capitalistica.
Costruito con una fantasia strepitosa da truccatori e scenografi di gran classe, e gremito di idee balzane che lo seminano di sorprese,anacronismi buffissimi, figure mostruose, per cui la macchina dell’imprevisto gira a pieno regime e ovunque soffia il vento della follia. Un film sarabanda, il cui filo logico è rappresentato dal pessimismo dei suoi autori, per i quali la dolcezza dell’amore sarà negata in una società che avrà ereditato tutte le nostre violenze. 
Terry Gilliam sul set

Comunità Provvisoria


Una democrazia radicalmente locale, costruita da comunità provvisorie che si formano in ogni luogo e che in ogni luogo discutono sulla forma da dare alle cose: può essere una piazza, può essere il modo di pagare le tasse o di produrre, può essere un'idea di scuola e un'idea di sanità. Una capillare manutenzione dal basso in cui le persone sono chiamate a discutere, a esprimere le proprie emozioni. La società si decide spezzando l'autismo corale, aggredendolo e costruendo luoghi in cui ci si mette in cerchio e si fa democrazia. Si sta insieme e si decide, si passa il tempo e si decide come passare il tempo. Il mio sogno è che il prossimo anno sia l'alba di un altro comunismo che consideri la democrazia locale il punto di partenza di ogni azione. Il mondo ha bisogno di essere amato e accudito, prima di essere pianificato o portato chissà dove. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza. Più che un agonismo su un'equità solo declamata, abbiamo bisogno di regole semplici, di accordi morali. Dobbiamo accordarci dopo aver esplicitato i conflitti, dopo aver compreso che il mondo non è solo nostro e quello che facciamo pensando solo a noi stessi è una forma di suicidio.